MA LA PACE CHIEDE RISCATTI?

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Non erano proprio delle brave persone i rapitori di Simona Torretta e Simona Pari. E nonostante quel che ora a molti piace pensare (e dire) non hanno affatto «liberato la pace», rilasciandole: hanno semplicemente concluso un affare per la non indifferente cifra di un milione di dollari che ci hanno estorto – anche se, com’è giusto, il ministro degli Esteri italiano lo nega – per ridarci indietro sane e salve le nostre due connazionali.

È necessario ribadire tali ovvietà perché molti indizi della scena italiana di queste ore fanno pensare che, di questo passo, tra poco ci toccherà di assistere ad uno straordinario e zuccheroso rifacimento della realtà. L’occasione – come c’era da aspettarsi – è stata fornita dai festeggiamenti per la liberazione delle due rapite. La sobrietà non è il nostro forte, lo sappiamo. Ma non si tratta solo di questo. Se non mi inganno, infatti, sotto i nostri occhi si sta tentando un singolare travisamento di ciò che è accaduto l’altro ieri in Iraq. Il rilascio delle due ragazze italiane sta diventando una «vittoria della pace» o addirittura, come titola l’Unità , «una vittoria dei pacifisti». Credo che si tratti di un sentire capace di essere fatto proprio da molti, specie da quella vasta parte dell’opinione pubblica contraria alla guerra. La felice conclusione dell’avventura di Simona Torretta e Simona Pari viene presentata e/o interpretata non solo come l’esito congruo alla qualità etica del loro impegno umanitario, ma come l’esito che avvalorerebbe anche il pacifismo in quanto tale: sono state liberate, si dice, perché erano «portatrici di pace» e al tempo stesso la loro liberazione dimostrerebbe la fondatezza della prospettiva pacifista. Poco conta quindi il fatto che anche Enzo Baldoni, fino a prova contraria, era un «portatore di pace». Poco conta, altresì, che resterebbe allora da spiegare come mai le due italiane, proprio loro due, sono state sequestrate per 21 giorni: forse che i loro «liberatori» ignoravano quando le tenevano prigioniere chi erano e che cosa facevano in Iraq?

Non intendo negare che la simpatia umana e l’apprezzamento politico che le due ragazze hanno saputo guadagnarsi con il loro lavoro si siano rivelati assai utili al fine del loro rilascio. Ma è davvero difficile credere che tutto ciò avrebbe condotto ad una felice soluzione senza il lavoro di pressione e di persuasione da parte del governo guidato da quel guerrafondaio di Berlusconi; se non ci fossero stati, soprattutto, i pacchi di dollari che lo stesso governo ha del tutto opportunamente gettato nelle grinfie dei sequestratori. Eppure in certo senso è vero che «ha vinto la pace». È vero nel senso che nella gestione mediatica della liberazione appare scontato a chi in queste ore sta andando la vittoria d’immagine. Tra il successo politico del governo e della sua maggioranza obbligati però a prendere le forme enfatiche, magari, ma inevitabilmente grigie dell’ufficialità, e dall’altro lato l’eccitazione gioiosa dei sentimenti e degli abbracci, delle vesti colorate e degli slogan, la retorica dei buoni sentimenti che questa volta mette insieme il mito della pace e quello degli «italiani brava gente»: non c’è dubbio a chi sta andando la maggiore attenzione e dunque, in qualche misura, anche la maggiore simpatia.


A dispetto di tutto, però, la realtà resta la realtà. Sì, siamo tutti felicissimi del ritorno a casa delle «due Simone» – come ormai esse si chiameranno per sempre – ma la loro avventura a lieto fine non cambia di nulla il carattere per lo più banditesco e terroristico del fronte antiamericano in Iraq, così come non è in grado di cambiare di nulla l’ovvio, sacrosanto scontro politico che quella guerra ha suscitato, e continuerà chissà fino a quando a suscitare, tra i partiti del nostro Paese.


di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA © Corriere della Sera, 30 settembre 2004