L’irriducibile differenza fra rifiuto dell’accanimento terapeutico ed eutanasia

L’Alta Corte Britannica ha deciso il 7 ottobre 2004 la sorte di Charlotte Wyatt, la bimba nata a sole 26 settimane di gestazione, mai uscita dall’ospedale di St. Mary’s – dove è nata – e bisognosa di continui mezzi tecnici di sostegno vitale: se avrà un nuova crisi respiratoria (come è già accaduto altre volte) potrà non essere rianimata, come auspicano i medici, “nel miglior interesse della piccola”, le cui condizioni sono andate progressivamente deteriorandosi, così che non vede, non si relaziona con il mondo esterno, ha insufficienza respiratoria, cardiaca, renale, arresto nello sviluppo neurologico.

Di diverso parere sono i genitori, secondo i quali la bambina avrebbe ancora speranze di sopravvivenza, sebbene limitate e in condizioni di disabilità grave, mostrerebbe segni di interazione con i famigliari e con l’ambiente circostante, non sarebbe gravata da insopportabile dolore in quanto adeguatamente sedata. Forse potrebbe vivere anche alcuni anni, vedere il mondo esterno, essere fonte di gioia per quanti l’amano. Chiedevano quindi che la figlia fosse rianimata ancora, in caso di necessità.

Al di là del giudizio corretto sul caso, difficilmente raggiungibile attraverso le informazioni giornalistiche, è significativa l’ondata di commenti e prese di posizione che un po’ ovunque si sono moltiplicati, a riprova del fatto che la tematica è di quelle cruciali, di cui certamente si parlerà ancora. Le domande a cui tutti si sentono chiamati a rispondere pensando a Charlotte sono ben delineate nei quotidiani e nei notiziari: accanimento terapeutico o eutanasia mascherata da finta pietà? Chi deve decidere l’astensione da una terapia? Che significato ha il riferimento alla bassa qualità di vita?

Il concetto di accanimento terapeutico è tra i più fraintesi e strumentalizzati dell’etica di fine vita, spesso modellato – con allargamenti e restrizioni – sulla posizione di cui si prendono le difese. La Consulta di Bioetica di Milano, ad esempio, nella presentazione del suo testamento biologico, afferma che “la medicina di oggi, in caso di malattia grave e non guaribile, consente di prolungare la vita del paziente in condizioni non dignitose. Ciò può portare ad una conseguenza paradossale: prolungando la vita, si prolungano e si aumentano le sofferenze della fase avanzata della malattia. È questo il cosiddetto ‘accanimento terapeutico’, che oggi anche il corpo medico riconosce come sbagliato e si impegna, almeno in linea di principio, ad evitare” (cfr. http://www.consultadibioetica.org).

In tale accezione, la sofferenza legata al prolungamento della vita sembra essere ipso facto un accanimento terapeutico. In tale prospettiva, è evidente che l’astensione da tale accanimento si traduce facilmente nell’interruzione della vita come modalità per “eliminare il dolore”, ovvero con la definizione più classica di eutanasia (cfr. M. Palmaro, Eutanasia: il problema della definizione terminologica).

Il miglior quadro di riferimento teorico dell’accanimento terapeutico è probabilmente quello offerto dalla Chiesa Cattolica, che già negli anni Cinquanta, con papa Pio XII, distingueva l’eutanasia da altri interventi che, pur risolvendosi di fatto in un’abbreviazione della vita fisica, non mirano a tale abbreviazione come mezzo per ottenere benefici ai pazienti in stato terminale. La morte, cioè, può essere la conseguenza prevista ma non voluta di atti diretti a dare il maggior beneficio possibile al paziente, ad esempio alleviando il dolore o non aumentandolo attraverso trattamenti sproporzionati.

La Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona tratta esplicitamente la questione: “Si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che si ci può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona” , Città del Vaticano, 1980, parte IV).

Nella valutazione dei mezzi da impiegare nella cura dei malati terminali, dunque, debbano entrare elementi di carattere oggettivo ed elementi di carattere soggettivo. Fra i primi (generalmente meglio individuabili dal personale medico) trovano posto l’efficacia che ci si può attendere dal trattamento, la gravosità per il paziente e per gli altri soggetti coinvolti (personale sanitario e famiglie), l’onerosità per il sistema sanitario, che impiega risorse altrimenti spendibili per persone maggiormente bisognose. Gli elementi soggettivi, che solo il paziente (o le persone che lo amano e che lo rappresentano) è in grado di valutare, hanno a che fare con il processo di preparazione alla morte che si attraversa in questi frangenti. Un paziente potrebbe desiderare ancora un po’ tempo per ottemperare a doveri famigliari o personali (vedere un parente lontano, riconciliarsi con qualcuno, fare testamento, assolvere agli obblighi religiosi, o anche solo “aspettare un altro poco”), un altro sentirsi “pronto”, e dunque accontentarsi dei mezzi normali di mantenimento in vita (cure igieniche, alimentazione, idratazione) evitando mezzi “straordinari” che la prolungherebbero senza reale beneficio.

Il principio della proporzionalità delle cure è ben precisato nella “Iura et bona”: “Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (ibidem). Il fatto che tale rinuncia sia lecita ma non obbligatoria si spiega appunto con la salvaguardia degli elementi soggettivi di valutazione che devono scrupolosamente essere presi in considerazione nel singolo caso.

Ma Charlotte non poteva decidere. L’opinione pubblica si è pertanto divisa sulla questione di chi debba decidere in simili, peraltro sempre più ricorrenti, circostanze: se i medici, i genitori o i giudici. Ogni soluzione presenta naturalmente rischi di manipolazioni e abusi, in un’epoca in cui il senso del valore della vita è così tragicamente oscurato che si è perennemente esposti agli estremi del rifiuto della vita e della pretesa della vita ad ogni costo, dell’eliminazione ad ogni costo della sofferenza e dell’infliggere gratuite sofferenze al prossimo per ragioni egoistiche o sperimentali.

In tale clima, è radicalmente compromessa la fiducia nel giusto operato di chi è implicato nelle decisioni di fine vita. Così, in Olanda, dove dopo l’introduzione della legge sull’eutanasia il ruolo decisionale nei casi di pazienti incoscienti spetta eminentemente ai medici, la gente viaggia munita di documenti che chiedono di non essere soppressa in caso di malattia grave, mentre in Italia medici e giudici affrontano da anni il padre di Elana Englaro, che si batte perché la figlia, da tredici anni in stato vegetativo persistente, sia privata dell’alimentazione e idratazione artificiale inducendone così la morte.

Quel che emerge dai dati disponibili su di Charlotte è la sostanziale “buona intenzione” di tutte le parti coinvolte, che non sembrano avere applicato categorie astrattamente ideologiche ad un caso reale, per giustificare o confermare le proprie ragioni, ma avere mirato al reale bene della bambina malata, cercando di trovare il giusto equilibrio fra mantenimento in vita e riduzione del dolore. È anche il parere dell’Arcivescovo di Cardif Peter Smith, presidente del Dipartimento per la responsabilità e la cittadinanza cristiana della Conferenza Episcopale d’Inghilterra e Galles: “Nessuno può dubitare della buona fede e dell’integrità di tutti coloro che si sono impegnati a risolvere questo tragico dilemma morale. L’insegnamento morale della Chiesa chiarisce che il nostro dovere di rispettare sempre la santità della vita non significa che dobbiamo fare di tutto per prolungare a qualunque costo la vita fisica. È moralmente lecito interrompere trattamenti medici ritenuti sproporzionati rispetto ai risultati attesi, eccessivamente gravosi, o fonte di sofferenze intollerabili” (cfr. http://www.catholic-ew.org.uk).

Due elementi paiono particolarmente significativi. Il primo è la valutazione della gravità delle condizioni cliniche della piccola, con la considerazione dei benefici che un’ulteriore ventilazione meccanica potrebbe recare in termini di durata e qualità di vita. Se una nuova crisi portasse, come si evince dalle dichiarazione dei medici, la paziente in uno stato decisamente terminale, potrebbe valere quanto afferma la Carta degli Operatori Sanitari: “la medicina odierna dispone […] di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva un reale beneficio. È semplicemente mantenuto in vita o si riesce solo a protrargli di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze. Si determina in tal caso il cosiddetto ‘accanimento terapeutico’, consistente nell’uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato, condannandolo di fatto ad un’agonia prolungata artificialmente” (Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari , Città del Vaticano, 1995, n. 119).

L’altro elemento è la volontà di offrire un buon accompagnamento alla morte, in cui il momento del trapasso non sia ricercato o anticipato attraverso la sospensione di misure “normali” di assistenza e in cui la vicinanza delle persone care al malato consenta un commiato il più sereno possibile. Se Charlotte viene accudita amorevolmente e non le viene negata alcuna forma ordinaria di assistenza medico-infermieristica, allora sta ricevendo al momento quanto le occorre nelle sue condizioni cliniche ed esistenziali.

Il rischio paventato invece da alcuni commentatori e movimenti pro-life è che la rinuncia alla rianimazione cardiopolmonare di Charlotte equivalga a sopprimerla perché inesorabilmente disabile e sofferente per tutta la vita. In questo caso, la motivazione non sarebbe evidentemente la sproporzione del trattamento ma un’erronea considerazione della qualità della vita come criterio sovrano di valutazione della dignità umana (cfr. S. Ertelt, British High Court Judge Approves Euthanasia of Baby Charlotte).

L’insistenza sulla “misera qualità di vita” della bimba è stato in effetti un ritornello ricorrente sui giornali, a dimostrare che, più della ricostruzione della verità delle cose, interessa ad una parte dei movimenti d’opinione spingere a favore di una progressiva accettazione culturale delle pratiche eutanasiche, banalizzando o svilendo la cultura della vita. Non a caso, molti articolisti hanno spiegato la riluttanza dei genitori a rinunciare alle cure con la loro “profonda devozione cristiana”, quasi che ciò ostacolasse una visione lucida e obiettiva della realtà.

Il criterio della “qualità della vita”, utile quando viene utilizzato per promuovere il benessere dei malati gravi e terminali attraverso la medicina palliativa, è invece assai debole quando intende discriminare fra vita umana degna e indegna, stabilendo chi abbia diritto a vivere e chi debba morire. Osserva David Field, professore di medicina perinatale al Leicester Royal Infirmare: “Non c’è una valida definizione di cosa costituisca una buona qualità di vita. Bisogna chiedersi perché si porti avanti questo dibattito sull’opportunità di salvare o meno i bambini prematuri, quando non ci sono dubbi sul fatto che si debba fare di tutto per salvare le persone anziane con il cancro o con malattie cardiache, anche quando presentino altri problemi di ogni genere” (S.K. Templeton e L. Rogers, Has science created a dilemma society cannot solve? , “The Sunday Times”, 10 ottobre 2004).

È diffusa infatti l’idea che tenere in vita bambini gravemente prematuri significhi aumentare il numero dei disabili e degli infelici, quando invece non è detto che i prematuri diventino disabili, ma soprattutto non è detto che i disabili siano infelici, ed è certo che conservano intatta la piena dignità umana. L’esito di questo radicale fraintendimento del senso della vita umana si mostra, ancora una volta, in Olanda, primo paese al mondo ad avere legalizzato l’eutanasia, in cui “è divenuta prassi comune non effettuare tentativi di rianimazione sui bambini nati a sole 23-24 settimane di gestazione, nonostante la scienza medica offra ad un numero crescente di loro buone possibilità di sopravvivenza. La legge olandese, costruita con il nobile intento di sollevare le sofferenze dei malati terminali, ha avuto l’effetto di privare di valore ogni vita umana” (Tom Utley, The baby Charlotte judgment has put us on a slippery slope, “The Telegraph”, 8 ottobre 2004).


Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.


Codice: ZI04101705
Data pubblicazione: 2004-10-17
L’irriducibile differenza fra rifiuto dell’accanimento terapeutico ed eutanasia
(C)
ROMA, domenica, 17 ottobre 2004 (ZENIT.org)