L’intervista a Martini: una sfilza di luoghi comuni politicamente corretti

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CHE RISCHIO SE MARTINI FOSSE DIVENTATO PAPA


di AMAKUSA SHIRO*
*il samurai cristiano


 

A leggere le dieci, diconsi dieci, fittissime pagine che «L’Espresso» del 21 aprile 2006 ha dedicato a un dialogo (si prenda nota di questa parola perché costituisce il LeitMotiv di tutta la faccenda) tra il cardinale Carlo Maria Martini e il chirurgo bioeticista Ignazio Marino, l’impressione che se ne cava è quella del dialogo, sì, ma tra sordi che si producono in una tutto sommato inutile e verbosa comparsata. Il primo mancava da tempo sulle scene (il secondo non c’è mai stato), e ci ha pensato il settimanale a metterlo addirittura in copertina come «esclusivo». Uno scoop che, francamente, lascia il tempo che trova, perché quel che aleggia sulle migliaia di parole stampate è la formidabile noia, assolutamemente simile a quella che si provava alle omelie dei pastori democristiani d’una volta. Se uno volesse un preclaro esempio di linguaggio curiale, con grande spreco si condizionali, di «forse» e di «quasi», di colpi ai cerchi e alle botti, di impiego di centinaia di parole per dire quel che si poteva dire con cinque o sei, ecco, ritagli queste pagine e le studi attentamente: magari, potrebbero tornare buone quando, da grande, decidesse di fare il predicatore nell’Italia prodiana del Terzo Millennio. Stando a quel che c’è scritto, apprendiamo che il Marino fa trapianti ed ha scritto un libro, Credere e curare, per il quale Martini si complimenta. Del libro non sappiamo, ma nel «dialogo» dell’«Espresso» ci sono una sfilza di luoghi comuni politicamente corretti, come l’aborto che è pur sempre un «dramma» e una «sconfitta», i donatori di organi che sono troppi pochi, la ricerca scientifica che deve essere quanto più possibile libera, il richiamo a una maggiore responsabilità etica per i ricercatori e via di questo passo. Esempio: «Su temi così delicati il rischio è di cadere in facili contrapposizioni e strumentalizzazioni che non portano alcun vantaggio, se non quello di creare fratture nella società». Con buona pace dell’italiano, l’importante è «individuare punti di incontro e non di divisione». Oh, e qui il Martini si trova perfettamente a suo agio, appartenendo egli alla generazione che dal B. Giovanni XXIII ereditò una sola frase (opportunamente estrapolata dal contesto): «Bisogna cercare ciò che unisce e non quel che divide». Ci hanno messo dieci pagine per parlarsi addosso l’un l’altro, auspice il settimanale di sinistra, evitando col lanternino le contrapposizioni, i sì e i no, abbondando l’uno di dati «scientifici» e l’altro di citazioni evangeliche (tranne questa: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» -Mt 5, 37). Epperò, districandosi -il lettore- tra le circonvoluzioni, emerge una certa critica (di Marino) nei confronti della legge 40, che avrebbe scelto «una via semplicistica», mentre dovrebbe essere «flessibile». Segue una tirata sul cosiddetto pre-embione, cui il cardinale risponde testuale: «Mi pare anche che quanto lei propone permetterebbe il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale che è ancora presente in non pochi ambienti». Già, esattamente quegli ambienti che hanno impallinato il referendum sulla 40. L’autore di Credere e curare prosegue: «Dal punto di vista scientifico è ipotizzabile, anche se non ancora confermato, che le cellule staminali embrionali siano le più adatte ai fini di ricerca». E ti pareva. Martini, bontà sua, non è d’accordo, anche se annega il suo dissenso nel solito mare di parole, preoccupato com’è dall’eventualità «che ci si scontrasse sulla base di principi astratti e generali là dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove è doveroso non entrare con giudizi apodittici». Marino invece si lancia proprio in giudizi apodittici: «Nessuno può negare che la legge ha permesso di ridurre il numero complessivo degli aborti e di tenere sotto controllo quelli clandestini». Balla cosmica, che Martini, però, sembra condividere (azzerando di fatto l’argomento principale degli antiabortisti) quando dice che «è tutto sommato positivo che la legge abbia contribuito a ridurli e tendenzialmente a eliminarli». Per giunta, condivide anche il disappunto di Marino per la scarsità di organi da trapiantare, per cui bisogna «propagandare il più possibile il principio della donazione e far crescere la coscienza collettiva su questo punto». Evidentemente sua eminenza non sa che il prelievo di organi si fa «a cuore battente» e che non è affatto chiaro, neanche scientificamente, quando si può dire che uno sia davvero morto (esiste a Bergamo addirittura una Lega contro la Predazione degli Organi). E si giunge all’Aids, con il lamento sulla solita Africa. A nessuno dei due dialoganti, però, viene in mente di scrutare quali siano le zone africane colpite, altrimenti avrebbero scoperto che non sono quelle di missione cattolica, dove l’Aids semplicemente non esiste. Invece, sua eminenza fa l’apodittico anche lui: «Certamente l’uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore». Ah. E, non contento: «C’è poi la situazione particolare di sposi uno dei quali è affetto da Aids. Costui è obbligato a proteggere l’altro partner e questi deve potersi proteggere». Naturalmente, l’astinenza pura e semplice non viene neanche presa in considerazione. Ed eccoci all’eutanasia. Martini: «Neppure io tuttavia vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé».
Come sappiamo, abbiamo corso il rischio che al posto di Ratzinger ci fosse Martini. E poi dicono che il Conclave non è assistito dallo Spirito Santo…


La Padania [Data pubblicazione: 29/04/2006]