Le strategie del criptoministro Visco

L’IVA FUNESTA DI VISCO


Dietro le discusse liberalizzazioni, ecco cosa nasconde il famigerato decreto Bersani circa i provvedimenti di natura tributaria. Il criptoministro Vincenzo Visco ha studiato una serie di norme fiscali punitive per le aziende e per il lavoro autonomo. L’idea è di recuperare una decina di miliardi di euro dalle partite Iva…



 

La definizione è di Giulio Tremonti, l’onorevole professor Visco è un “criptoministro”: c’è ma non si vede; sulla carta è soltanto vice di Padoa Schioppa, in pratica si è accaparrato tutte le deleghe che competevano, prima della riforma Bassanini e del conseguente accorpamento dei ministeri, al ministero delle Finanze. Del resto chi aveva già fatto il ministro delle Finanze, essendo il più politicamente schierato tra i responsabili della politica economica nel Governo, può ridursi al rango di vice di un pur prestigioso tecnico come Padoa Schioppa? Quest’ultimo, forse suo malgrado, da “super ministro”, è relegato al rango di ministro semplice. Alcune lamentele si odono nell’aria: i vertici della Guardia di Finanza lombarda, rimossi da Visco, dicono di fare riferimento al ministro dell’Economia e non al vice; come funzionerà la coabitazione tra i due? Si prevedono scintille in periodo di legge finanziaria. Si vedrà.
Intanto la politica fiscale è gestita sotto la piena responsabilità di Visco: l’impostazione della manovra correttiva delle scorse settimane ha tutti i connotati delle linee politiche ideologicamente punitive contro il lavoro autonomo e le attività di impresa. Non a caso tra gli adetti ai lavori e anche tra semplici commentatori, il decreto legge 223 è ormai percepito non tanto come “decreto Bersani”, piuttosto come “Bersani-Visco”.
Infatti, dopo una fase in cui l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata sulla prima parte del decreto, quella gestita da Bersani e volta a favorire qualche incipiente segnale di liberalizzazione in alcuni comparti del sistema produttivo, ci si sta accorgendo che il vero e immediato impatto sulla generalità delle imprese è nella seconda parte – per la precisione nel titolo 3° – quella dei provvedimenti di natura tributaria pensati da Visco.
Nelle recenti settimane abbiamo letto un’infinità di commenti sui provvedimenti in materia di privatizzazioni. Non voglio qui ragionare su questo fronte, mi si consentano due osservazioni: l’obiettivo di Bersani è condivisibile, ma il metodo – la scelta di un decreto legge, senza alcun dialogo preventivo con le parti interessate – è incomprensibile: qual è la ragione speciale di necessità e urgenza nel fare privatizzazioni per decreto se sono venti anni almeno che le aspettiamo?
Mario Monti – CorSera 20 luglio – sostiene che le liberalizzazioni vanno fatte senza concertazione preventiva, e senza decretazione d’urgenza, ma attraverso un processo di trasparente consultazione: la trasparenza finora è mancata, anche nel delineare una strategia complessiva sulla materia.
Ad esempio non è chiaro come sia compatibile la linea liberalizzatrice del ministro Bersani con gli sventolati proclami di revisione – se non di cancellazione – della Legge Biagi, che del processo di liberalizzazione sul mercato del lavoro è strumento cardine. In verità di questo tema, dopo il baccano preelettorale, non parla più nessuno; non sarò io a solleticare gli stimoli degli accaniti oppositori alla legge Biagi, che per ora, mi pare, tacciono. Anche su questo lato sommessamente aspettiamo gli sviluppi. E infine, se le contestazioni delle categorie interessate – come nel caso dei tassisti – inducono a una marcia indietro, con quale credibilità si allargherà il progetto di liberalizzazione ai settori cruciali per lo sviluppo del Paese, a cominciare dal settore energetico?
Comunque, dopo le fragili buone intenzioni di Bersani, ci si imbatte, scorrendo il decreto, in una serie di norme fiscali che hanno un denominatore comune nobile, la lotta all’evasione, ma che nella sostanza si configurano in interventi punitivi per le imprese e i lavoratori autonomi, soprattutto in materia di Iva. È lì secondo Visco che si annida l’evasione. È nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto che il gettito è in sofferenza di almeno 10 miliardi di euro; e allora ecco una sequenza di correttivi all’Iva che sono difficili da spiegare a uno studente universitario di Scienza delle Finanze, perché tendono a snaturare la natura del tributo.
Sarebbe un’imposta neutra
Infatti uno dei principi base che si cerca di inculcare agli studenti è che l’Iva è un’imposta che colpisce la manifestazione di capacità contributiva nata al momento del “consumo”, cioè dell’acquisto di beni o servizi. Benissimo: nella sostanza l’imposta grava sul consumatore finale, il privato cittadino che acquista, appunto beni o servizi. Lo Stato incassa il tributo col concorso di tutti i soggetti – gli operatori economici, cioè le imprese e i professionisti – che partecipano al processo di produzione e distribuzione di beni e servizi. L’Iva è quindi un’imposta – plurifase la definiscono gli addetti ai lavori – che è sostanzialmente “neutra” per le imprese e i professionisti, i quali non fanno altro che versare allo Stato la differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella assolta sugli acquisti.
Scusandomi per la banale lezioncina, sappiamo che in realtà le cose sono più complicate, ma il dato di fondo è o dovrebbe rimanere questo: la capacità contributiva è al consumo, non alla produzione di ricchezza. Esistono già molte altre forme di prelievo collegate alla produzione di ricchezza o di reddito.
E invece, un po’ alla volta la “vision” del ministro Visco – mi si permetta di utilizzare la qualifica sostanziale – in materia di Iva è tale da portare a un crescente prelievo aggiuntivo a carico delle imprese e dei professionisti, spesso, tra l’altro, senza riduzioni del carico fiscale per i consumatori finali. Dalla lettura delle norme si evince che ciascun “produttore” è “vissuto” da Visco come un evasore potenziale da contrastare con misure da “stato di polizia tributaria”: la definizione, che condivido, è di Renato Brunetta e di Giorgio Stracquadanio (Libero, 19 luglio).
Qualche esempio, per avvalorare le affermazioni appena fatte. Immaginate un giovane che voglia avviare un’attività in proprio e conseguentemente debba aprire la partita Iva: attenzione, l’amministrazione finanziaria, prima dell’attribuzione del numero che dovrebbe rappresentare un diritto per chi lo richiede, deve procedere alla «esecuzione di riscontri automatizzati per l’individuazione di elementi di rischio connesso al rilascio dello stesso e all’eventuale preventiva effettuazione di accessi nel luogo di esercizio dell’attività» (il corsivo è nostro). Quale messaggio arriva al giovane: se ti dai da fare, il fisco di Visco ti vede come un rischio, quindi pensaci due volte prima di entrare in rotta di collisione, ridimensiona i tuoi propositi, forse è meglio un bel posto fisso, di quelli che non danno problemi.
Nel settore immobiliare si sono concentrati gli interventi più pesanti di Visco, interventi che hanno trasformato in operazioni esenti con effetto retroattivo alcune cessioni di immobili su cui era applicata l’Iva.
A parte l’effetto retroattivo, talmente scandaloso nei suoi effetti più penalizzanti da essere in via di correzione o per lo meno di limitazione in sede di legge di conversione, occorre sul punto provare a chiarire le idee ai non addetti ai lavori.
Continuando con la lezioncina semplificata che in genere si propina a volenterosi studenti,  si spiega che nel mondo Iva esistono le “operazioni esenti”, su cui non si applica l’imposta – che quindi il consumatore finale non paga – o per ragioni di alternanza con l’imposta di registro o per ragioni di “attenzione e sensibiltà sociale” a favore del consumatore finale: se vado dal medico, sto male, ho bisogno di cure, o di analisi, lo Stato mi tratta con un occhio di riguardo: non mi fa pagare l’imposta. Imposta che però è fatta pagare al medico il quale, proprio perché effettua operazioni esenti, perde il diritto alla detrazione dell’Iva sui suoi acquisti. Il fatto che poi, avendo costi più elevati, il medico alzerà il corrispettivo che mi chiede per la prestazione e che quindi in sostanza finirò comunque io a pagare, questo è un altro discorso, ahimé, realistico.
Dunque esistono operazioni esenti che, nate per favorire il consumatore finale, possono diventare uno strumento per punire l’impresa o il professionista che le pone in essere. Visco è particolarmente abile nell’usare la leva delle operazioni esenti non a favore dei consumatori finali, ma contro il sistema produttivo. Nel settore immobiliare diventano esenti tutte le operazioni di locazione, anche quelle di leasing; diventano esenti tutte le cessioni di fabbricati tranne quelle effettuate entro 5 anni dall’ultimazione dei lavori – forse 4 in sede di conversione – da parte delle società di costruzione o che abbiano effettuato interventi di recupero.
Perché bus sì, taxi no?
In buona sostanza il settore immobiliare si vede gravato di spropositati costi aggiuntivi e retroattivi – tutta l’Iva assolta sugli acquisti che diventa elemento di costo – con effetti dirompenti sulla tenuta delle azioni e delle quotazioni dei fondi immobiliari, su cui converge una buona fetta del risparmio dei cittadini.
Le correzioni di rotta sono “in itinere”, si parla di emendamenti per ridurre gli effetti della retroattività, per consentire di scegliere in alcuni casi tra l’esenzione o applicazione dell’Iva – con diritto alla detrazione – con però un costo fiscale aggiuntivo dato dalle imposte ipotecarie e catastali o dall’imposta di registro. Staremo a vedere; la sostanza è che attraverso la previsione di nuove fattispecie di operazioni in esenzione da Iva, si continuano a penalizzare le imprese e i professionisti, senza benefici per i consumatori.
Le attenzioni verso i consumatori, verso i cittadini, sono del tutto assenti in chi manovra questi strumenti. Ricordo una questione, forse poco conosciuta ai più, sempre sull’utilizzo della categoria delle operazioni esenti. Sul servizio di trasporto pubblico cittadino, autobus, tram, metropolitane, taxi, l’Iva non era dovuta: un cittadino che prendeva l’autobus non doveva pagare l’Iva: sacrosanta attenzione ai profili di equità del prelievo, anche nel campo delle imposte indirette. Cosa inventa l’allora ministro delle Finanze a fine 1997 (indovinate un po’ di chi si trattava?): le prestazioni di trasporto pubblico – tranne quelle effettuate mediante veicoli da piazza, i taxi – sono state trasformate in operazioni imponibili. Dal 1998, chi prende l’autobus o il tram paga l’Iva, mentre chi prende il taxi continua a non pagarla. La sensibilità sociale, l’attenzione al cittadino più debole è inesistente.
Ma allora che senso ha avuto l’operazione? Semplice: Visco utilizzò la leva delle operazioni esenti in senso inverso rispetto all’uso che ne fa oggi contro alcune imprese: allora ne fece un uso a favore di altre imprese, che guarda caso erano le ex–municipalizzate, spesso legate ad amministrazioni locali di sinistra. Tecnicamente, poiché le società di trasporto pubblico erano e continuano a essere fisiologicamente in perdita, l’Iva sugli acquisti da costo è stata trasformata largamente in credito verso lo Stato; si è trattato di una manovra per favorire i bilanci delle società di trasporto locale a spese dello Stato; alla Cotral, trasporto pubblico laziale, mi dissero la cifra di credito Iva generata da tale manovra: si trattava di molte decine di miliardi di lire, mi spiace non ricordare il dato esatto.
In sostanza i cittadini, furono penalizzati sia come utenti, in quanto tenuti a corrispondere l’Iva nel prezzo del biglietto, sia come contribuenti, perché con le loro tasse lo Stato paga i crediti Iva vantati  dalle ex–municipalizzate.
Speriamo venga tolta l’Irap
Tornando alla manovra, tralascio, per non annoiare i lettori, i tanti altri interventi punitivi: dall’obbligo di incassare i corrispettivi oltre 100 euro in forme diverse dal contante, all’obbligo di inviare l’elenco clienti e fornitori, alla comunicazione telematica settimanale o mensile dei corrispettivi da parte dei negozianti.
Il punto di arrivo del ragionamento è questo: per Visco anche l’Iva diventa un’imposta che colpisce chi produce; l’accanimento contro le attività produttive è un dato costante delle scelte fiscali a lui riconducibili. Certo queste ultime scelte portano argomenti ulteriori alla tesi, contestata da Visco, che l’Irap è nei fatti una duplicazione dell’Iva. Chissà che da premesse negative – il giro di vite in materia di Iva – non ne possa discendere la buona notizia della dichiarazione definitiva, da parte della Corte di Giustizia europea, della illegittimità dell’Irap.


di Massimiliano Longo
Il Domenicale N. 30 – DAL 29 LUGLIO AL 4 AGOSTO 2006