La vita prima della nascita

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ECCO DI CHI STIAMO PARLANDO

Dall’atomo primitivo alla nascita e dall’esplosione vitale alla vita del feto. L’embrione è qualcosa o qualcuno? Prima di rispondere leggete qui…

di Francesco Agnoli

“L’atomo primitivo” della Genesi.
Nel XII secolo un vescovo francescano di nome Roberto Grossatesta, studiando attentamente il libro della Genesi e quello della natura, ipotizzò che l’universo intero fosse nato da un minuscolo puntino di luce-energia creato da Dio e destinato a espandersi immensamente sino a dar vita a un cosmo incredibilmente grande, ordinato e complesso. Probabilmente, se non fosse stato un vescovo, un grande studioso della luce, degli specchi e dell’arcobaleno, e non avesse avuto un certo ruolo nella costruzione dei primi occhiali da vista, qualcuno avrebbe potuto accusarlo di essere un po’ matto. Come? L’incredibile molteplicità delle forme viventi, il mondo minerale, vegetale, animale, ognuno così complesso al suo interno, tutto da un miserabile puntino indistinto? L’immensamente grande dall’incredibilmente piccolo? Eppure parecchi secoli dopo, nel Novecento, un altro sacerdote, un filosofo tomista, l’abate Lemaître, avrebbe sostenuto la nascita dell’universo da un singolo “atomo primitivo”, dando vita alla teoria che verrà detta del “Big Bang”, ancor oggi ritenuta, da molti, assai attendibile. Del resto già Galileo Galilei aveva puntato il cannocchiale verso i cieli immensi, facendo notevolissime scoperte; ma aveva anche spiegato l’importanza di guardare ciò che è piccolo, costruendo il cosiddetto “occhialino”, l’antenato del moderno microscopio. Ebbene il parallelo tra l’universo fisico e l’uomo si impone spontaneamente. Per i medievali infatti l’uomo è un microcosmo, analogo, per molti aspetti, al macrocosmo: è, idealmente, il centro del mondo, in quanto “luogo” in cui la vita acquista autocoscienza, consapevolezza, spirito e pensiero. Anche l’uomo, al pari del creato intero, nasce per così dire da una stupenda “esplosione”, da un Big Bang, semplicissimo e complessissimo a un tempo. L’unione di due persone che si amano, uomo e donna, genera infatti una creatura nuova, che eredita parte del patrimonio genetico del padre e parte della madre, costituendo però un nuovo individuo, assolutamente unico, originale e irripetibile. C’è già, in questo rapporto, una “esplosione”, che ben esprime quel mistero grande che si intravede dietro l’amore: la sua capacità di creare. L’amore, infatti, dicevano sempre i filosofi medievali, è “diffusivo di se stesso”: tende a irradiarsi come la luce del sole, che si diffonde ovunque, velocissima, penetrando e vivificando, donando i colori, scaldando e facendo crescere.
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L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?
Ma l’esplosione non è solo, per così dire, metaforica, un’esplosione d’amore: è anche fisica, proprio come per l’“atomo primitivo” di Lemaître. Ogni uomo infatti inizia a esistere come embrione monozigote, cioè come creatura di una sola cellula, capace di svilupparsi ed evolvere sino a dar vita a una persona completa. In origine, dunque, tutto il mondo in un atomo, tutto l’uomo in una cellula. Chi amasse la filosofia potrebbe capire già da queste osservazioni come si possa giustificare, filosoficamente, il monoteismo creazionista: tutto deriva dall’uno, come scriveva già Galilei, che è per così dire il numero più piccolo, perché dà vita a tutti gli altri, ma anche il più grande, perché, in origine, li contiene tutti. Oppure, usando un’altra immagine, si potrebbe dire che l’universo, come anche il corpo umano, è un unico grande quadro, pieno di figure e di elementi diversi che concorrono a una rappresentazione unitaria: dietro questa unità nella molteplicità si può postulare la mano intelligente di un unico pittore. Ma rimaniamo nel campo del visibile: che cosa vediamo osservando la cellula iniziale che darà vita a un uomo completo di arti, organi, apparati eccetera? La rivista scientifica Newton (n. 3, 2004) riporta questa descrizione: “All’inizio è solo una microscopica cellula, alla fine saranno milioni e milioni di cellule organizzate che pesano oltre un miliardo di volte quella iniziale. In mezzo ci sono giorni e giorni di lavoro scandito da tappe precise. Prima, ventitrè stadi per lo sviluppo dell’embrione, sessanta giorni perché dalla cellula fecondata si arrivi a un esserino dalla testa arrotondata con il tronco e gli arti ben formati. Poi, il periodo fetale, molto più lungo del precedente, che prosegue per altre ventinove settimane circa. Un cammino avventuroso e ricco di colpi di scena che dura 266 giorni, giorno più giorno meno”. Tutto a partire da un puntino di pochi millimetri, in cui esiste già un’“intelligenza” intrinseca, che permette un graduale sviluppo ordinato e finalizzato che porta alla formazione di organi e apparati, così diversi l’uno dall’altro, eppure armonizzati in unità. Questa “intelligenza” intrinseca, paragonata spesso al programma di un computer, è il cosiddetto Dna, ovverosia un “lungo e sottilissimo filamento che trasmette tutte le informazioni che servono a costruire quell’unico, particolare, nuovo essere umano”. Tale programma, per uno dei suoi più grandi studiosi, lo scienziato Erwin Chargaff, ci rimanda, evidentemente, all’esistenza non del “Signor Caso”, autore involontario di qualcosa di sensato, ma di un programmatore intelligente. Infatti, come nessuna musica degna di essere definita tale può incidersi da sola, casualmente, sul nastro di una cassetta, analogamente è difficile affermare che la melodia infinitamente più grandiosa della vita, nei vari momenti della sua esplicitazione, possa derivare dall’assoluta mancanza di cause, e cioè dalla assenza di un compositore.
Ecco, l’eredità del Signore sono i figlioli: la sua ricompensa il frutto del seno. Quali frecce nella mano dell’eroe, tali sono i figli della giovinezza”. (Salmo 126)
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L’alba dell’Io.
Tornando alla rivista citata, Newton, essa ci informa, tramite un accurato servizio fotografico a cura del ginecologo tedesco Rainer Jonas, che a quattro settimane “l’embrione non raggiunge i sei millimetri di lunghezza e pesa un centesimo di grammo… sono però già evidenti gli abbozzi delle braccia e delle gambe, mentre su ogni lato del viso è riconoscibile una protuberanza, il primo accenno di occhi. Il cuore comincia a battere e, soprattutto, ha inizio un grandioso progetto: il cervello”. Tra la quinta e la sesta settimana, “l’embrione si presenta con una grossa testa reclinata in avanti… il palmo delle manine è ben definito”: potremmo già prendere le impronte digitali, così incredibilmente uniche e originali. Alla settima settimana, l’embrione è “lungo 17 millimetri, pesa appena 7 centesimi di grammo ed è già in grado di provare sensazioni, anche se primitive”. Alla nona settimana, infine, c’è un esserino ormai completo, in cui addirittura crescono le unghie delle mani e dei piedi. Dimostra già “gusti precisi”: “L’ecografia rivela che iniettando nel liquido amniotico delle sostanze dolci il feto fa dei movimenti di suzione e deglutizione, mentre in presenza di sostanze amare fa delle smorfie accompagnate dal tentativo di chiudere la bocca”. Che cosa succeda in seguito lo sappiamo: il bimbo continua a crescere, senza soluzione di continuità, mentre la natura si “concentra su dettagli e dimensioni”. La sua vita è già così intensa che scalcia, nuota come un astronauta nel liquido amniotico, percepisce i rumori e i suoni provenienti dall’esterno, sino ad affezionarsi al battito del cuore della madre. Il Corriere della Sera del 29/6/2004 ci informa addirittura che con una nuova ecografia tridimensionale a ultrasuoni si è scoperto che “a 26 settimane il feto riesce addirittura a esprimersi in modi diversi: sbadigliando, sfregandosi gli occhi, piangendo, succhiando e sorridendo”. Sono le stesse considerazioni esposte in vari scritti dal dottor Carlo Bellieni, neonatologo di fama internazionale, che ha studiato attentamente il suo paziente tipico, e cioè proprio il feto, per comprenderne le caratteristiche, anche in vista di eventuali cure prenatali. Nel suo “Se questo non è un uomo” (Ancora, 2004) ci racconta che in utero il feto “ascolta, gusta i sapori, sente i movimenti, sente gli odori. Alla base del cranio fetale c’è un organo, detto organo vomeronasale che serve appunto per sentire gli odori nel mezzo acquatico, e che si atrofizzerà dopo la nascita… Dalla ventiduesima settimana il feto ha una reazione di soprassalto quando gli viene proposta una musica ad alto volume attraverso la parete uterina. Sappiamo poi che il feto sa abituarsi agli stimoli: se il feto ascolterà più volte la stessa musica attraverso la parete uterina, dopo alcune volte non sussulterà più, anzi i battiti cardiaci inizieranno a diminuire, come fa un adulto quando ascolta una cosa che lo interessa”. Nei vari capitoletti del suo libro Bellieni analizza quindi “la memoria del feto”, “il piacere del feto”, la possibilità che egli possa in qualche modo sognare, e la sua percezione del dolore. Nel suo “L’alba dell’io” ci dà altre informazioni preziose, che così riassume: “A 23 settimane il feto distingue la voce materna dalle altre, riconosce i suoni. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, i neonati riconoscono le musiche delle telenovele ascoltate dalla mamma. Le melodie udite in utero calmano il pianto del bambino… in generale lo calma tutto ciò che riproduce la sua situazione prenatale: i figli delle ballerine per esempio vogliono essere cullati vigorosamente, abituati come sono al movimento”.
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Parola di abortista.
Anche un celebre ginecologo come Carlo Flamigni, docente universitario a Bologna, collaboratore del quotidiano l’Unità e sostenitore agguerrito della liceità dell’aborto e della fecondazione artificiale, concorda con queste osservazioni: “Lontano dall’essere un ospite inerte, il feto svolge un ruolo attivo nell’andamento della gravidanza, controlla vari aspetti del suo sviluppo ed è capace di rispondere a vari stimoli uditivi, visivi e tattili provenienti dall’ambiente esterno. Alcuni psicologi parlano di ‘personalità’ del feto prima della nascita. Queste supposizioni sono confortate da vari racconti di individui in ipnosi che hanno ricordato esperienze vissute nel periodo prenatale o l’esperienza della nascita. In base quindi al presupposto che il feto possa essere cosciente, consapevole e capace di memoria, è anche stato ipotizzato che le esperienze che vive durante il periodo prenatale possano influire sullo sviluppo della sua emotività e sulla sua mente” (“Avere un bambino”, Mondadori). E altrove: “Il mondo del bambino in utero comincia solo adesso ad aprirsi allo studio e alla conoscenza. Sappiamo che il feto dorme e che in alcuni momenti il suo sonno si accompagna a movimenti oculari rapidi (sonno Rem), come il sonno dell’adulto che sogna…”.
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Il protagonismo biologico dell’embrione.
Ebbene, in tutto questo processo, che ci è ancora per moltissimi aspetti sconosciuto, dall’embrione, al feto, al neonato, la nuova vita è incredibilmente protagonista. Per dirla con un altro ginecologo di fama, Pino Noia, “l’embrione è un attivo orchestratore che dirige il suo impianto e il suo destino futuro”. Del resto, già nel lontano 1947, il famoso biologo Jean Rostand, in “L’avventura umana dal germe al neonato”, scriveva che “dal momento della fecondazione la parte più importante della costituzione fisica è determinata. Per il solo fatto che l’uovo ha ricevuto quei dati cromosomi, nulla potrebbe impedire, se esso si sviluppa, che produca un individuo di un dato sesso, con una data qualità di capelli, una data forma di cranio, un dato colore di occhi…: un pittore onnisciente potrebbe derivare l’immagine di qualsiasi individuo dal semplice esame dei cromosomi dell’uovo fecondato dal quale nascerà”. Ciò comporta appunto che la nuova vita, meccanicamente isolata dall’organismo materno grazie a una membrana mucopolisaccaridica prima e al trofoblasto poi, ha già in sé tutto ciò che gli serve allo sviluppo e alla sua evoluzione: “Conserverà sempre la sua singolarità genetica, perché non usufruirà di nessun apporto di materiale genetico organizzato che intervenga dall’esterno a modificarlo” (Giorgio Carbone, “L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?”, ESD). L’embrione, dunque, non è, come la statua fatta da un falegname, plasmata a suo piacere, nel tempo voluto e secondo un suo personale disegno, che può essere tranquillamente considerata una proprietà e un “brevetto” del falegname stesso.
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Il rapporto con la madre.
Questo non significa, però, che il nascituro non abbia bisogno di aiuto, e cioè della generosa ospitalità della madre. A lei infatti è richiesto di sopportare le nausee, il mutamento del proprio fisico, la stanchezza e la debilitazione, e, infine, il dolore del parto: l’amore materno si rivela subito, anche fisicamente, come un amore basato sul sacrificio e sulla dedizione completa, che rimarrà caratteristica della madre anche negli anni a venire. Del resto, tale indissolubile legame, spirituale e fisico, ha origine già nei primissimi giorni, allorché l’embrione e la madre intraprendono un dialogo intensissimo, in cui la madre è chiamata, solitamente, a dare, e, più raramente, a ricevere. Sin dal concepimento infatti si instaura tra l’embrione che risale la tuba e la donna che si prepara ad accoglierlo il cosiddetto “colloquio crociato”. Tale colloquio viene abitualmente definito “talk cross” ed è, come scrive Flamigni, uno “scambio di informazioni chimiche”: “L’inizio dell’impianto della blastocisti (particolare stadio dell’embrione, ndr) e l’invio di messaggi specifici alla madre sono contemporanei a profonde modificazioni dell’utero (la mucosa si trasforma e si ispessisce; aumentano i vasi sanguigni; la muscolatura diviene più soffice ed elastica) e della blastocisti stessa, le cui cellule iniziano a differenziarsi e a costruire i propri sistemi di ancoraggio nei confronti della mucosa, sistemi che serviranno anche per lo scambio di sostanze chimiche”. Insomma: l’embrione dialoga con la madre e la madre con lui, con finalità che sono benefiche e preparatorie per entrambi. Questo colloquio è essenziale, tanto è vero che continuerà nel tempo: madre e figlio non smetteranno di comunicare con “messaggi misteriosi”, “messaggi impalpabili che la biochimica ufficiale non riesce né a percepire né a quantificare” (op. cit.). Gli studi più recenti ci spingono ad andare oltre, e cioè a ritenere che vi sia una interazione profonda tra madre e figlio, già in utero, anche dal punto di vista psicologico. Lo hanno sottolineato parecchi medici, allarmati dalla sempre maggior ansietà con cui la società accoglie i suoi figli. Sembra infatti che le indagini prenatali, tralasciando ogni altra considerazione, come pure l’obbligo sociale del figlio sano e bello a tutti i costi, siano in qualche modo percepiti dal figlio stesso, quasi avvertisse la precarietà del suo destino e l’ansia di colei che lo ospita. E’ sempre Flamigni a spiegarci che “vari studi hanno dimostrato che l’attitudine della madre verso il feto ha un forte impatto sulla salute sia fisica sia psichica del nascituro. I bambini nati da madri ‘ambivalenti’, cioè con difficoltà ad accettare la gravidanza anche se apparentemente felici, presentano spesso problemi comportamentali e somatici, quali disturbi gastrointestinali. Le cosiddette ‘cool mothers’, madri cioè che per problemi di carriera o finanziari non vogliono una gravidanza, hanno più spesso figli inizialmente letargici e apatici. Il bambino prima della sua nascita è strettamente legato alle esperienze fisiche, mentali ed emotive della madre. E’ stato coniato il termine ‘toxic womb’ a sottolineare l’importanza dell’influenza degli stress emotivi, fisici e psicologici dei genitori e in particolare della madre. Diversi autori hanno suggerito che la gravidanza e la nascita sono eperienze formative non solo per i genitori, ma anche per il bambino. Durante i nove mesi di gestazione, i genitori possono essere felici, ambivalenti, arrabbiati, o senza speranza e allo stesso modo il bambino si può sentire benvenuto o respinto”. Per questo, conclude Flamigni, “il compito di essere genitori non inizia con la nascita o uno o due anni dopo, ma già durante la gravidanza, quando il grembo materno diviene una scuola che tutti i bambini frequentano e in cui i genitori sono gli insegnanti”.
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Quando il figlio salva la madre.
Per concludere si può notare che se è vero che alla madre è richiesto un amore capace di sacrificio e di dedizione al figlio, sin dalla sua primissima comparsa, è anche vero che quest’ultimo non è fonte di gioia e di bene solo a partire dalla sua nascita, quando, con la sua bellezza, riesce a stupire e a consolare la madre di ogni passata sofferenza. Sembra infatti che anche il figlio abbia potenzialità benefiche, a livello fisico, sulla madre, ancora in utero. Diana Bianchi, ricercatrice genetista della Tuft University di Boston, ha dimostrato la possibilità che il “traffico cellulare” tra madre e concepito possa portare, in alcuni casi, alla guarigione di un tumore materno. Ha infatti documentato “un’esperienza molto particolare, notando che le cellule staminali del figlio ancora in grembo avevano circondato un follicolo tiroideo della madre che aveva avuto una tendenza neoplastica trasformandolo in cellule tiroidee. Individuando il tumore, dunque, le cellule staminali fetali si sono differenziate in cellule tiroidee per curare e circoscrivere una lesione materna: hanno quindi la potenzialità di riparare danni a organi della gestante, trasmettendo benefici per la salute” (Noi-Avvenire, 25/1/2004). Inoltre le cellule del nascituro continuano a rimanere per decenni nella madre, e “potrebbero svelare perché, per esempio, le donne sono più longeve dell’uomo” (Il Giornale, 9/10/2004).
Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo”. (Salmo 139)

Il Foglio 21 dicembre 2007