La ribellione di Budapest raccontata da Montanelli

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LE CRONACHE DALL’UNGHERIA DEL GRANDE GIORNALISTA
Nell’anniversario della rivolta antisovietica


Pubblichiamo ampi stralci dei capitoli finali di “Dentro la storia” (1992) di Indro Montanelli. Il testo raccoglie le corrispondenze di guerra del giornalista italiano (1909-2000) dalla Finlandia (1936-39) e dall’Ungheria (1956), pubblicate all’epoca sul Corriere della Sera. In occasione del 50° anniversario dell’insurrezione repressa dal partito comunista sovietico, si apre oggi al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini la mostraBudapest 1956. La rivoluzione“, che ospita il reportage fotografico di Erich Lessing e una serie di testi esplicativi degli eventi ungheresi, tra cui i discorsi delle radio libere, gli interventi dei politici italiani e stranieri, gli articoli dei giornali più noti, le prese di posizione del pontefice Pio XII, le opere dei maggiori poeti del Paese.


di Indro Montanelli


 

Alle sei di sera, il generale ottimismo venne avallato da un comunicato ufficiale. Il punto più spinoso delle trattative era risolto. Le truppe sovietiche avrebbero abbandonato il Paese entro tre settimane, al massimo entro due mesi. Pranzai in allegria insieme ad amici ungheresi. Uno di essi mi promise di farmi incontrare Dudas, il Parri di quella liberazione, l’indomani. Il Duna,l’albergo in cui tutti alloggiavamo, era un ronzio di telefoni, un incrociarsi di saluti e di evviva, un andirivieni di patrioti armati, di ausiliarie, di uomini politici con molti anni di galera dietro e molti portafogli di ministri davanti a sé. Io avevo una stanza in comune con Matteo Matteotti, che mi è stato compagno in tutti questi giorni e di cui ho ammirato sinceramente l’impassibile sorridente coraggio. All’una di notte eravamo a letto, pregustando il piacere di una lunga dormita. Una lunga dormita che durò meno di quattro ore. Non dovevano, infatti, essere ancora le cinque, quando fummo inurbanamente risvegliati dal collega Saporito, che ci piombò in camera col cappotto buttato sul pigiama. «Sparano» annunziò. «Sentite…». In lontananza, effettivamente, si udiva un lugubre rombo, come di valanga, senza soluzione di continuità. Mi alzai di furia, invitando Matteotti a fare altrettanto. Si stropicciava gli occhi intontito, cercando di giustificare la sua voglia di sonno con supposizioni ottimistiche che il boato dei cannoni, avvicinandosi, smontava sempre più clamorosamente. Quando mi precipitai nella centrale telefonica, tutto l’albergo era già in subbuglio. Ci trovai una povera donna, pallida in volto, che mi disse: «Sono uscita una settimana fa dal campo di concentramento. Sette anni ci sono stata». «Milano, prego. Mi dia subito Milano» ordinai con impazienza. La donna pigiò un bottone e, in attesa della risposta, continuò: «Ora dovrò tornarci. Non ci salverà nessuno». «Insista per Milano, la prego». La donna tornò a pigiare il bottone. «Quanti morti inutili!» disse. «Debbo parlare con Milano, a tutti i costi» incalzai quasi con violenza. La donna si mise in ascolto, poi scosse tristemente la testa. «Siamo già tagliati fuori» disse. «Siamo tutti di nuovo in prigione». Stanati dal letto da quel fragore rotolante di artiglierie, e sommariamente vestiti, tutti si precipitavano giù per le scale, trascinandosi dietro valigie infagottate e mal chiuse che ogni tanto si aprivano rovesciando sui gradini biancheria e suppellettili. La sala da pranzo era piena di gente assiepata davanti a un altoparlante che annunciava un importante comunicato. «Figeln, Figeln!» diceva, attenzione, attenzione. E i boati si facevano sempre più vicini. «Dall’Urss un colpo di marca hitleriana» Alla fine, l’importante comunicato venne. Era il disperato appello di Nagy al mondo libero, e tutti ormai lo conoscono. Ignoro se fosse sua, la voce rotta che informava l’Occidente di ciò che era avvenuto e gli chiedeva aiuto. Contro ogni impegno d’onore e di diritto, diceva, i russi avevano iniziato la marcia su Budapest, mentre ancora si svolgevano le trattative, e arrestato i parlamentari magiari. Un colpo di limpida marca hitleriana. Ora, dieci divisioni corazzate precipitavano sulla capitale. I carri armati vi entrarono alle sei e un quarto e fu una terrificante colata di acciaio. Venivano da tutte le direzioni, sempre accompagnati da quel cupo rombo di artiglierie, e dilagarono sui grandi viali che menano al centro, affiancati tre per tre, con i cannoni puntati in avanti, le mitragliere ai lati. A ogni crocicchio, uno si fermava, mentre gli altri proseguivano. I vetri delle finestre tremavano sotto il loro sferraglio. E credo che in tutta Budapest non ci fosse in giro, in quel momento, una sola persona. Sembrava una necropoli dissepolta. Di vivo, non c’erano che le bandiere pendule ai balconi leggermente mosse dal vento, con lo stemma di Kossuth al posto della stella rossa (e ci sono sempre rimaste). I grossi calibri, issati sulle colline che circondano la città, tuonavano senza posa. Ci si domandava dove e contro chi sparassero. Poi si seppe che l’avevano fatto a scopo intimidatorio, come tutta quella parata del resto, a rullo compressore, che sembrava implicare alcunché di ineluttabile. Come tecnica di regia terroristica era perfetta. Seguì una lunga, strana, agghiacciante pausa di silenzio. Le artiglierie avevano di colpo cessato il fuoco. E, per circa tre ore, l’esercito sovietico, chiuso dentro i suoi carri, e il popolo di Budapest, chiuso dentro le sue case, stettero a guardarsi, muti e immoti. Nessun ungherese affacciò la testa fuori dell’uscio. Nessun russo sporse il capo fuor della sua botola. (…) Di lì a poco, un boato, sul dietro, ci fece sussultare. Accorremmo ad altre finestre, quelle che danno sul Danubio. E vedemmo che si trattava solo del segnale di partenza d’un piroscafo. In un pennacchio di fumo, anch’esso aveva issata la bandiera tricolore con lo stemma di Kossuth, e in quel momento levava le ancore. Sulla banchina, tre ragazzi erano venuti a giocare al calcio con una palla di stracci fra due autoblindo russe. Ogni tanto essa picchiava sui loro cingoli, e i ragazzi la prendevano al rimbalzo, ridendo. Nulla era più inquietante di quella strana quiete. Ed ecco, d’improvviso, verso le dieci e mezzo, giungere l’eco lontana d’una mitraglietta leggera, subito coperta da quelle armi pesanti sovietiche. «Il solito pazzo» pensammo, lo confesso, con un certo disappunto. Ma quando quel primo diluvio di fuoco si fu placato, ci accorgemmo che i pazzi a Budapest erano molti: un intero manicomio. A destra, a sinistra, più vicine, più lontane, le mitragliette cominciarono a interloquire con la loro voce petulante. E, da quel momento, la città fu per quattro giorni e quattro notti una fornace, un uragano di fuoco. (…)
LE MINACCE DEI SOVIETICI. Il telefono funzionò, per le comunicazioni urbane, fino a martedì 6, poi le comunicazioni furono tagliate e restammo isolati, dietro le porte sbarrate e le finestre con le saracinesche abbassate. Bisognava soprattutto resistere alla tentazione di affacciarvisi. I russi non amavano la gente alla finestra. E anche intorno a quelle nostre c’erano i segni di questa loro disaffezione. La battaglia, quel primo giorno, non ebbe requie, né soste. E tutti quartieri della città vi furono, dal più al meno, coinvolti, senza soluzione di continuità. Ma gli epicentri erano il XIII distretto, quello operaio, che è stato fra i più martoriati, e l’VIII, attiguo a quello nostro. Essa raggiunse la massima intensità verso le otto di sera, quando, con nostro grande stupore e in mezzo a un uragan odi cannonate, la radio, ormai caduta in mano ai sovietici, annunciò che la rivolta era stata schiacciata e che gli ungheresi si erano piegati all’ultimatum lanciato quattro ore prima. Essa aveva ammonito che, se i patrioti non avessero deposto le armi, la città sarebbe stata rasa al suolo dal bombardamento aereo. Come i patrioti avessero deposto le armi, più che vederlo, lo sentivamo dal crepitio ininterrotto dalle loro mitragliatrici leggere, in mezzo al fragore delle artiglierie avversarie, e abbiamo seguitato a sentirlo per quattro giorni e quattro notti. Ma si vede che i russi ci avevano ripensato e preferivano fingere di avere vinto piuttosto che mandare a effetto quella spaventosa minaccia. C’era nella loro reazione alcunché di affannoso e, quasi, di rabbioso. Si capiva che dovevano finirla a tutti i costi e al più presto. Ma non ci riuscivano. Dopo ogni furibonda scarica dei loro panzer, il gracidio delle mitragliette riprendeva petulante ed implacabile. Al buio, dietro le fessure delle saracinesche, noialtri si spiava l’incedere fragoroso e sussultante delle autoblindo che, quando giungevano all’incrocio, per un attimo, nel voltare, carezzavano con la bocca del cannone la facciata della nostra casa. E un brivido ci correva per la schiena. Poi procedevano ciabattando ed avventando alla cieca i loro colpi. Subito, dietro di loro, apparivano allo scoperto, col “parabellum” imbracciato e la bottiglia di benzina in mano, i patrioti, come cacciatori dietro una lepre ferita. Ogni tanto disponevano in mezzo alla strada dei curiosi aggeggi che sembravano scatole di latta e che ci facevano tremare di paura. Perché si pensava che fossero mine e che i carri, saltandoci sopra, avrebbero attirato sul posto rappresaglie indiscriminate. Invece, no. Erano proprio scatole di latta. E quei ragazzi si divertivano a metterle per spaventare i piloti russi che, vedendole, esitavano. Esitavano quanto basta per consentire ai guerriglieri appostati tutti intorno di sbucare dai loro nascondigli e di lanciare le bottiglie di benzina mescolata con alcol etilico che, al contatto con l’aria, si incendiava, avvolgendo il carro di fiamme. Martedì sera, quarantotto ore dopo che Mosca aveva dato per schiacciata la resistenza, ce n’erano sessanta a bruciare allegramente per le strade. Uno di essi aveva avuto il periscopio accecato da una bambina di dodici anni che vi era salita sopra e l’aveva tappato con una manciata di fango per consentire a due suoi coetanei di lanciare indisturbati la bottiglia. (…) Una preziosa fonte di informazioni fu un matto che si annidava fra noi in veste di inviato speciale della Radio e Televisione: Vittorio Mangili, di Milano. Va citato al merito del nostro giornalismo. Usciva ogni mattina al seguito di un certo Lajos che veniva fedelmente a prenderlo, armato di una macchina da presa che sembrava un compromesso fra una bomba a orologeria e un cannoncino portatile, e che avrebbe giustificato una fucilazione sul posto. E tornava la sera, carico di pellicole, di vettovaglie e di notizie. Ne ha combinate di tutti i colori. Ha fatto perfino il portaordini dei patrioti, a bordo di una delle loro automobili di collegamento, il servente ad un pezzo anticarro postato in un groviglio di binari divelti dalla stazione Keleti, il testimone nell’interrogatorio di un maggiore russo prigioniero. Il coraggio eroico degli insorti Perché succedeva anche questo, nella battaglia di Budapest: che le automobili partigiane scorrazzassero fra i carri sovietici, che gli insorti maneggiassero non soltanto pistole, ma anche cannoni (quello di Keleti era stato strappato ai russi, non aveva meccanismo di puntamento e la mira la prendevano a occhio, sulla canna, come si fa con i fucili. Mandò all’aria sei panzer. Il settimo mandò all’aria lui, con tutti gli artiglieri che gli stavano intorno, mercoledì mattina). E succedeva che nel più centrale degli alberghi, il Duna con le autoblindo sovietiche a cinquanta passi, si interrogasse un maggiore russo prigioniero, sotto testimonianza di osservatori stranieri. E tutto ciò quando Mosca, già da due giorni, aveva dato per stroncata la rivolta. Molti miei colleghi hanno cercato, carta topografica alla mano, e sulla scorta di ciò che si vedeva e si veniva a sapere, di dare un ordine e di attribuire un filo conduttore alle operazioni da una parte e dall’altra. Auguro loro di esserci riusciti. Io, per me, ci rinunziai subito, e preferisco attenermi a quello che ho potuto constatare con i miei occhi, o per lo meno controllare a cose fatte. È poco, lo so, ma in compenso è certo. (…) Questa straordinaria battaglia è stata combattuta senza il minimo scrupolo di clandestinità. Tutti sapevano benissimo che, prima o poi, sarebbero rimasti senza armi e munizioni, alla mercé della repressione poliziesca. Ma non si sono mai curati di coprire con un nome d’accatto la propria partecipazione. Kilay comandava come Kilay. E nessuno si è lasciato crescere la barba, si è messo un paio di occhiali, ha cambiato abitazione e indirizzo. Nelle azioni c’erano ordine e coordinamento, o per lo meno ci furono sino a mercoledì. Lo si vedeva dai messaggi che giungevano al quartier generale degli studenti che io frequentavo e di quelli che ne partivano. La direttiva fondamentale era che non si doveva attaccare la colonna dei carri, ma seguirla per segnalare quale di essi fosse rimasto, per una ragione o per l’altra, isolato, e dove. Contro di quello partivano le squadre. Tanto è vero che carri isolati i russi, a un certo punto, non ne lasciarono più. Li tenevano sempre due per due, uno sotto la protezione dell’altro. Curiosi episodi visti spesso – lo riconosco – senza capirli. Un giorno transitò dinanzi ai nostri pertugi un panzer sovietico scortato da quattro patrioti. Mangili, precipitatosi fuori per riprendere la scena, chiese loro se lo avevano catturato, e come. «No, è un alleato» risposero ridendo, e lo pregarono di non fotografare i russi che procedevano sul veicolo allo scoperto. (…) Una città ridotta come un gruviera Io non so quali danni e quante perdite la città abbia subito. Posso soltanto dirvi questo: che un giorno Saporito e io ci mettemmo a contare i colpi di cannone che i panzer tiravano per le strade. Dopo un’ora, eravamo a oltre duecento, circa tre al minuto. Moltiplicate duecento per cento ore quanto è durata press’a poco la battaglia e riflettete che ognuna di quelle granate picchiava, prima o poi, contro un muro. Non lo distruggeva, ma ci faceva un buco perché si trattava di proiettili anticarro, cioè perforanti, non dirompenti o incendiari. E capirete a cosa somiglia oggi Budapest: a una grossa forma di formaggio gruviera. In qualunque momento, ognuno dei suoi abitanti poteva trovarsi sulla traiettoria di uno di questi missili. Quando non li colpivano, vi mandavano all’aria le finestre. Noialtri si dormiva in quel tambureggiamento col viso rivoltato in stracci per non farci colpire dai vetri. Bombardamenti aerei, a essere sincero, non ne ho uditi. Ma era un tale inferno che sarebbe stato difficile distinguerli da quelli terrestri. Pare che a Buda ce ne sia stato uno ma su obiettivi limitati. Le grosse distruzioni sono di fronte al St. Gellert, ma è un tale ammasso di macerie che non si capisce se le bombe siano venute dal cielo o dalla terra. Quanto alle perdite, si calcola sui quindicimila morti e sui cinquantamila feriti. Ma chi è andato a fare il conto casa per casa? (…) Solo mercoledì sera si ebbe la sensazione che stava per finire. E ci si ritrovò tutti nell’ufficio del ministro, davanti alla radio. Captammo Roma. Trasmettevano il discorso del ministro Martino. Un bel discorso. Ma, a chiusura, udimmo il grido lanciato in aula dai deputati comunisti: «Viva l’Armata rossa!». A pochi passi da noi, l’Armata rossa stava mitragliando nelle cantine gli operai e gli studenti di Budapest, rimasti senza munizioni.
I MOTI SOFFOCATI NEL SANGUE Tre immagini tratte dal reportage fotografico di Erich Lessing, ed esposte nella mostra “Budapest 1956. La ribellione”, ospitata al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini. Nella foto grande, un carro armato sovietico catturato dai rivoltosi e utilizzato per bloccare una strada. Si distinguono lo stemma ungherese e una bandiera nera. A destra, gli insorti fanno irruzione nella biblioteca sovietica Horizon e staccano un ritratto di Lenin. Sotto, manifestanti danno alle fiamme un quadro di Stalin.
I FATTI GLI SCONTRI Nell’ottobre 1956 una manifestazione di studenti ungheresi nella capitale si trasforma in una massiccia rivolta popolare contro l’oppressione comunista del regime di Rakosi. Negli ultimi giorni del mese il partito comunista ungherese si ribella a Mosca e pone a capo del Paese Imre Nagy. In un primo momento l’Urss sembra retrocedere nel conflitto contro i rivoltosi. A inizio novembre, però, i carri ritornano a Budapest e soffocano nel sangue la ribellione. Nagy viene arrestato con la promessa di essere salvato. Sarà giustiziato un anno dopo. Alla fine, i morti sarnno decine di migliaia.
LE REAZIONI Il Pci di Togliatti e l’Unità, diretta da Pietro Ingrao, si schierano compatti con il Pcus, bollando di «sommossa controrivoluzionaria » la rivolta ungherese. Numerose, però, saranno le espressioni di dissenso e scetticismo in seno alla sinistra. La Chiesa cattolica, da Pio XII al cardinal Mindszenty (rinchiuso per anni nell’ambasciata Usa) al futuro pontefice Montini si schiereranno espressamente a difesa della libertà del popolo ungherese.


*** È in prossima uscita, da Marietti, il libro dello stesso Erich Lessing: “Budapest 1956. La rivoluzione“, 50 Euro, 252 pagine illustrate.


LIBERO 20 agosto 06