L’Arabia ha finanziato le correnti estremiste

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Mohammed Darif, professore all’Università di Mohammedia: Riad dava aiuti nei momenti di crisi in cambio dell’apertura di dipartimenti con docenti “fidati”

Mohammed Darif, docente di Scienze politiche all’Università di Mohammedia, è lo studioso più autorevole dell’islam politico del Paese, presto pubblicherà un volume suI Marocco religioso, dall’islamismo al salafismo combattente. “Gli spagnoli farebbero bene a contattarla”, gli dico nel Café de France di Casablanca dove ci siamo dati appuntamento. “L’attuale capo dei servizi spagnoli è una vecchia conoscenza dato che faceva l’ambasciatore in Marocco”, risponde senza troppo sbilanciarsi.



E ciò non ha impedito alla cellula marocchina di al-Qaeda di agire indisturbata…



Con Madrid, al-Qaeda è entrata in una fase nuova. Il messaggio che l’organizzazione vuole lanciare è chiaro: “Non abbiamo bisogno né di un Afghanistan né di campi d’addestramento. Le nostre bombe possono essere confezionate negli appartamenti e con semplici telefonini”.



Vogliamo prima andare alle origini dei salafiti jihadisti?



In verità, non esiste un gruppo specifico denominato “salafita jihadista”. Il salafismo jihadista è una corrente di pensiero che si è staccata dal salafismo tradizionale, ossia lo wahhabismo. È perciò errato includerli nel novero degli “islamici”, dei partiti e movimenti che rigettano la violenza, anelano a una certa legittimità da parte del governo e accettano il principio della democrazia.



E come è potuta nascere qui una corrente wahhabita? Mi pare che la scuola malikita radicata nel Marocco sia molto tollerante rispetto a quella hanbalita, professata dagli wahhabiti.



Lo wahhabismo ha puntato sul Marocco sin dall’Ottocento. In tempi recenti è stato favorito dall’ex ministro dei Beni religiosi, lui stesso wahhabita. L’Arabia Saudita versava ingenti somme al nostro Paese allorché eravamo in balia di una grave crisi economica e impegnati nel conflitto del Sahara occidentale. Questi aiuti non erano certamente gratuiti. In ogni facoltà di Lettere, i sauditi hanno chiesto di aprire un dipartimento di Studi islamici e di affidarli a insegnanti diplomati in Arabia Saudita.



Dal seno di questi movimenti sono poi nati i gruppi jihadisti…



Esattamente, e ciò dopo la “ribellione” di Benladen al governo saudita seguita all’invasione del Kuwait. Nel 1998 è nato il “Gruppo marocchino combattente”. Non si trattava all’inizio di organizzare attentati in Marocco o all’estero, bensì di garantire un appoggio logistico ai membri di al-Qaeda, e di facilitare il loro soggiorno in Marocco – magari attraverso il matrimonio con donne locali come è avvenuto con i sauditi espulsi in relazione alla preparazione di attentati a Gibilterra – o anche il furto e la falsificazione di documenti ufficiali per agevolare il passaggio di terroristi in Europa.



E quando sono cambiate le finalità?



Dopo l’11 settembre e la partecipazione attiva del Marocco alla lotta contro il terrorismo. Le ondate di arresti, molti dei quali arbitrari, hanno esasperato gli animi. I gruppi jihadisti hanno così deciso, in una riunione svoltasi nel gennaio 2002 a Istanbul, di passare all’azione. I kamikaze di Casablanca sono stati reclutati nel novembre dello stesso anno e, quattro mesi dopo, Benladen minacciava per la prima volta esplicitamente il Marocco.



Ha ragione l’Italia di considerarsi nel mirino?



Tutte le circostanze che hanno portato alle bombe di Madrid sono presenti anche in Italia: Alleanza con gli americani, smantellamento di cellule islamiche, rafforzamento della politica di sicurezza, partecipazione alla guerra in Iraq.



Da Casablanca Camille Eid


Avvenire, 31 marzo 2004