Il ‘piano inclinato’ della diagnosi genetica pre-impianto.

di Claudia Navarini


Nel 1991 è stata identificata la responsabilità di un gene, chiamato APC (adenomatous polyposis coli), nella poliposi adenomatosa familiare (FAP), una forma ereditaria di cancro caratterizzata dalla formazione di centinaia di adenomi al colon-retto in età compresa fra i venti e i quarant’anni, con successiva degenerazione in adenocarcinoma e alta percentuale di mortalità in assenza di diagnosi precoce (Green RJ et al., Surveillance for second primary colorectal cancer after adjuvant chemotherapy: an analysis of Intergroup 0089, Ann Intern Med 2002, 136: 261-269). E’ geneticamente dominante: un genitore malato ha il 50% delle probabilità di trasmettere la malattia al figlio, anche se l’altro genitore è sano, e non possono esistere portatori sani della malattia: o si è sani (assenza del gene) o si è malati (presenza del gene in almeno una “metà” del patrimonio genetico).

Questa la teoria. In pratica, come in molte delle diagnosi genetiche di malattie, soprattutto ad insorgenza tardiva come questa, vi sono notevoli margini di incertezza e di ignoto. Uno studio in corso presso l’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova, ad esempio, ha rilevato la presenza del gene APC nel 60% circa dei casi di FAP considerati (cfr. http://www.istge.it ).

Il progetto di ricerca si propone di sperimentare metodologie di diagnosi genetica non standard che consentano di individuare la mutazione del gene incriminato anche nei casi di tumori del colon-retto “APC-negativi”, che non siano cioè associati alla presenza del gene APC tramite i comuni test genetici.

Non esistono invece dati sufficienti per valutare la situazione inversa, ovvero soggetti “APC-positivi” che non abbiano sviluppato la malattia, mentre è provato che soggetti affetti ma trattati tempestivamente hanno concrete probabilità di prevenire la degenerazione dei polipi in cancro. Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, dunque, non è possibile stabilire l’associazione automatica e costante fra presenza del gene APC e mortalità per FAP.

Eppure in Gran Bretagna, il 2 novembre 2004, l’agenzia governativa responsabile della regolamentazione in campo riproduttivo, la Human Fertilization and Embryology Authority (HFEA), ha approvato la selezione embrionale dei concepiti in vitro “APC-positivi”, con conseguente eliminazione di quelli risultati predisposti alla FAP. Questo tipo di diagnosi preimplantatoria va così ad aggiungersi ad altre già consentite nel Regno Unito, come le ricerche genetiche per fibrosi cistica, morbo di Huntington o talassemia.

Il fatto fa riflettere. Si scorge un processo che dall’accettazione della fecondazione in vitro per documentata sterilità conduce alla sua applicazione in situazioni di sterilità solo presunta (pertanto non adeguatamente verificata), e poi ai portatori di alcune gravi malattie genetiche, al fine di effettuare la diagnosi precoce degli embrioni ed “evitare” l’impianto di quelli affetti, fino all’estensione della diagnosi preimplantatoria per un numero progressivamente maggiore di patologie, gravi, meno gravi e anche ad insorgenza tardiva, cioè relative ad embrioni perfettamente normali al momento dell’impianto ma che potrebbero sviluppare in seguito malattie mortali o invalidanti.

In questo modo si compie il passo decisivo, di enorme portata morale, verso la logica dell’eugenetica, cioè verso la volontà di ingiusta discriminazione e selezione degli esseri umani su base genetica (cfr. A. Mantovano, “il Foglio”, 28 ottobre 2004, p. 2). E anche qui, nel regno dell’eugenetica, c’è una prevedibile evoluzione, che porta dall’eugenetica sanitaria “negativa”, che mira cioè a non preservare la vita di chi ha (o meglio avrebbe) determinate malattie, all’eugenetica sanitaria e morfo-funzionale “positiva”, che punta cioè alla “scelta” di particolari tratti genetici in grado di assicurare benefici al figlio (o ai suoi genitori): una vita più lunga, più sana, più resistente, in una parola più felice (cfr. C. Navarini,
L’eugenetica “positiva” non esiste , ZENIT, 3 ottobre 2004).

Chi sostiene la diagnosi genetica preimpianto nega questo “piano inclinato”, affermando che da eventuali esempi aberranti non è lecito desumere deterministicamente l’irrefrenabile scivolamento di ogni selezione embrionale verso forme “eugenetiche”, intendendo per eugenetica la pratica con cui si scelgono (o si rifiutano) arbitrariamente le caratteristiche genetiche di un essere umano a fini meramente migliorativi. Dare la possibilità a genitori malati di avere figli non affetti dalla stessa malattia sarebbe da un simile punto di vista “un atto dovuto”, una possibilità della medicina odierna di cui sarebbe doveroso avvalersi in presenza di opportune indicazioni. “Scegliere” i figli, secondo questa prospettiva, sarebbe invece altro: stabilire il colore degli occhi o dei capelli, scegliere il sesso, la forma del naso (cfr. S. Prestigiacomo, “il Foglio”, 29 ottobre 2004, p. 1).

L’eugenetica paventata, insomma, riguarderebbe solo la selezione di caratteristiche estetiche, di tratti somatici a cui viene associata una superiorità, ma non riguarderebbe le scelte relative “alla salute”, e non sarebbe in gioco nelle attuali leggi e proposte legislative (nazionali e internazionali) sulla diagnosi preimpianto.

Sta di fatto che l’eugenetica storicamente più nota e ovunque deprecata – quella nazional socialista – non si basava solo sulle caratteristiche fisiche o anagrafiche a cui veniva associata una presunta idea di purezza razziale (gli “ariani”), ma si impegnava a “purificare” il popolo dai disabili (soprattutto mentali), dai morenti, dai neonati malati o deformi. Se si prova per un attimo ad esaminare la questione fino in fondo, in effetti, risulta evidente la debolezza degli argomenti adotti dai fautori della diagnosi genetica preimplantatoria.

“Selezionare” gli embrioni prodotti in vitro non è come scegliere quale vestito mettere (uno in fondo vale l’altro), non è come scegliere la destinazione di un viaggio (“Vado dove mi piace”, “Dove mi conviene”), non è come scegliere il prosciutto dal salumiere (“Mi dia il migliore”), non è nemmeno come scegliere gli ovuli o gli spermatozoi (che sono semplici cellule) prima della fecondazione. È una scelta fra persone.

Nella vita si scelgono frequentemente le persone: scegliamo gli amici, il medico, l’avvocato che deve difenderci, se possibile l’insegnante, e in un certo senso anche il fidanzato, che a un certo punto scegliamo magari di sposare. Scegliamo sulla base di alcune caratteristiche che ci sembrano rilevanti per il rapporto che intendiamo avere con quelle persone. Ma chi non viene scelto non è fisicamente “eliminato”; è escluso, questo sì, e talora l’esclusione può generare sofferenza, così come la scelta può rivelarsi errata e divenire fonte di difficoltà.

Ma i figli non si scelgono. Si desiderano, si aspettano, si accolgono, si curano. Si sceglie (e si spera) di essere genitori, ma non “di chi” esserlo. Per questo è sentita come aberrante la “scelta” del figlio adottivo come fosse un prodotto da banco. Quasi tutti gli aspiranti genitori adottivi, avvertendo chiaramente la repulsione per una scelta fra bambini ugualmente degni e ugualmente bisognosi di una famiglia, si affidano agli “abbinamenti” genitori/bambino effettuati dagli enti che trattano le adozioni. I genitori che hanno finalmente trovato il “loro” figlio avvertono sovente una specie di disagio, di dispiacere, quasi di responsabilità nel lasciarsi alle spalle tanti bimbi soli, pur sapendo che non dipende da loro il fatto che siano stati abbandonati.

Nella fecondazione in vitro i bimbi in provetta sono tutti scrupolosamente voluti e ricercati, non si può dire in alcun modo che le donne che vi ricorrono siano a rischio di una “gravidanza indesiderata”, la vita di quei piccoli esseri umani che crescono fuori del corpo materno dipende totalmente dalla disponibilità della madre ad accoglierli, come quella di qualunque concepito, di qualunque bambino. Hanno però una fragilità particolare, che li rende più vulnerabili degli embrioni e dei feti “comuni”: sono “esposti”, alla mercé di chi li ha prodotti, causa di tentazioni di dominio di cui iniziamo a vedere le conseguenze.

Jacques Testart offre su questo punto puntuali osservazioni: “Avevo avuto l’intuizione che la fecondazione in vitro, in grado di esporre l’embrione umano fuori dal corpo materno e di renderlo accessibile alle analisi, non era stata inventata soltanto per assistere la procreazione di certe coppie, fortunatamente una minoranza. (…) Mi dicevo che il fatto di aver estratto l’ovulo dal corpo della donna, di averlo messo in vaso, di avere agito un po’ come fanno le rane, non poteva essere una cosa innocente. (…) [D]ato che gli embrioni si trovavano nella provetta e non ancora nel ventre, sarebbe venuta la tentazione di identificarli per scegliere il migliore con lo scopo di farne un bambino” (J. Testart, C. Godin, La vita in vendita. Biologia, Medicina, Bioetica e il potere del mercato, Lindau, Torino 2004).

Gli esempi che mostrano la sconcertante mentalità eugenetica generata dalla fecondazione in vitro non si contano. Basti pensare all’eliminazione selettiva di embrioni sani ma “non compatibili” attuata dalla coppia di Pavia che in settembre ha potuto guarire il figlio talassemico attraverso le cellule staminali del cordone ombelicale delle due sorelline concepite e “realizzate” ad hoc (C. Navarini,
Cellule staminali “adulte” e talassemia: lo stravolgimento propagandistico di un grande successo terapeutico , ZENIT, 12 settembre 2004).

E ora la Gran Bretagna si spinge oltre, consentendo l’eliminazione di embrioni che potrebbero ammalarsi dopo venti, trenta o quarant’anni, quando tra l’altro la ricerca medica avrà magari trovato una valida terapia. Il commento di Monsignor Elio Sgreccia è chiarissimo: “E’ una logica utilitaristica che apre la strada a cose che giustamente devono essere ritenute delitti contro la dignità e la vita umana” (
Radio Vaticana, “Radiogiornale” del 2 novembre 2004 ).

La selezione genetica preimplantatoria contiene in questo senso un livello di malizia perfino superiore a quello dell’aborto, perché difficilmente può essere pensata in funzione di quei “casi pietosi” che sull’aborto tante volte sono stati presentati: donne giovanissime, indigenti, malate che si trovano a dover sopportare il peso di una gravidanza inaspettata, abbandonate da tutti, gravate da una serie di complicazioni personali e sociali.

Nella fecondazione artificiale le coppie passano attraverso accurate consulenze dalle quali possono trarre tutte le informazioni necessarie a compiere una scelta procreativa consapevole e a dare il proprio consenso informato, avvertite dei possibili rischi connessi con le tecniche e con la loro specifica situazione clinica.

Per l’aborto è stata accertata oramai da tempo l’esistenza della sindrome post-abortiva, e solitamente le donne che decidono di abortire passano attraverso un travaglio e una sofferenza che le segna per tutta la vita. Quando vengono intervistate le donne che hanno selezionato i loro embrioni prima dell’impianto si vedono volti sorridenti e paghi che dicono: “Si sono formati otto embrioni, ho scelto il migliore, quello che dava maggiori garanzie di riuscita”. Con grande naturalezza e disinvoltura, come negli spot pubblicitari.

Chi sa di avere maggiori probabilità (o la certezza) di generare figli con problemi genetici – una certa percentuale di probabilità ce l’hanno tutti – è indubbiamente posto di fronte a difficili interrogativi sull’eventualità di avere figli biologici. Ma la selezione preimplantatoria non rappresenta la soluzione: con essa si possono eliminare figli già concepiti che potrebbero avere, o sviluppare in seguito, determinate malattie, ma non ci si assicura il figlio assolutamente sano che si va così tenacemente cercando; anzi, il rischio – lo confermano i pediatri – è quello di ricoprire questo figlio così prezioso di aspettative di perfezione che il piccolo non potrà comunque soddisfare, risultando drammaticamente inadeguato.

Dall’altra parte, c’è la seria possibilità di “scartare” embrioni che appaiono malati, ma che sono in realtà sanissimi, sia per la percentuale di falsi positivi propria di tutte le diagnosi genetiche (G. Gambino, Diagnosi prenatale. Scienza, etica e diritto a confronto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma 2003, soprattutto pp. 126-178), sia per i delicati equilibri di interazione fra genoma, ambiente e stile di vita, che ha reso ormai obsoleta l’associazione “un gene, una patologia”.

Inoltre, per un delicato meccanismo di compensazione, ancora poco conosciuto, per il quale difetti genetici associati a determinate patologie possono contemporaneamente risultare protettivi nei confronti di altre malattie: “si conoscono addirittura quattro o cinque esempi di geni di malattie gravi di cui si sa che (…) grazie ad essi si può essere protetti meglio della maggior parte degli altri uomini” (J. Testart, Il corpo…cit.).

Ma soprattutto, con la selezione genetica preimplantatoria c’è la certezza di uccidere un imprecisato numero di figli, sani o malati che siano, illudendosi così forse di sfuggire alla paura del dolore, o di realizzare un sogno tutto terreno di perfezione e, in definitiva, di immortalità.


Agenzia di notizie www.zenit.org – 14 novembre 2004