GLI AFFARI DELLA CASTA (quella vera)…

LE TRE CHIESE

Esenzioni Ici e regali.
Tutti i favori ai sindacati

Il governo se la prende con la Chiesa Cattolica, ma le agevolazioni fiscali sono uguali se non maggiori per i sindacati e i politici. Altro che i presunti vantaggi alla Chiesa Cattolica: Cgil, Cisl e Uil non pagano la tassa comunale, e hanno pure ricevuto le sedi in omaggio. Le tre associazioni sindacali si dividono anche la gran parte dei 330 milioni di euro che lo Stato versa ogni anno per i centri di assistenza fiscale.

1) Gli affari della casta
2) Le tre «chiese». Esenzioni Ici e regali. Tutti i favori ai sindacati
3) I veri privilegiati sono intoccabili
4) Partiti, sindacati e l’Ici della discordia


1)


Gli affari della casta

di VITTORIO FELTRI

Una parte della sinistra ha trovato la soluzione ai buchi di bilancio. Per far quadrare i conti ha lanciato una proposta geniale destinata a rendere felici gli italiani, secondo la solenne promessa di Romano Prodi in campagna elettorale. La Idea, sostenuta se non suggerita dalla Unione europea, è la seguente: far pagare le tasse al parroco, al curato e – ciappa su e porta a cà – anche al sacrista, baciapile pure lui. Finalmente qualcuno parla chiaro e annuncia propositi sani. La Chiesa rompe le balle sull’aborto, e chiede la revisione della 194? Si oppone da migliaia di pulpiti ai submatrimoni fra omosessuali? Rovina le coscienze dei fedeli con iniezioni di bigottismo? Insomma, interferisce nella splendida attività politica della maggioranza? I progressisti si vendicano con l’arma a loro più congeniale: il randello delle tasse. Così almeno i maledetti preti la smetteranno di ficcare il becco nello Stato laico. La bastonata che piegherà il groppone sotto la veste nera consisterà nell’obbligo di versare l’Ici su tutto il patrimonio immobiliare della parrocchia non strettamente connesso al culto. Per esempio gli oratori, dove molti di noi hanno trascorso l’adolescenza, protetti dalla droga e da altre schifezze. Perché? Non sono luoghi di aggregazione giovanile, non svolgono funzioni sociali? Non importa. Le menti illuminate della sinistra vanno al di là delle sciocchezze e dicono: c’è il bar, ci sono i biliardini, il teatrino, addirittura il cinema, per non parlare del campo di calcio. E allora si tratta di business. Quei bastardi di religiosi speculano. E se speculano, se incassano montagne di spiccioli, si adeguino alle regole. Non è lecito sfuggire all’Ici quando si possiede un edificio adibito a commerci più o meno fiorenti. Lo stesso discorso si applica agli ospizi. I sacerdoti gestori incamerano le rette della nonna ricoverata, che lo Stato non è in grado di ospitare nelle strutture pubbliche perché non ne esistono? Chissenefrega, dichiarano i laici liberali del centrosinistra spinto. Non si tollerano eccezioni: se gira del grano, ospizi e supermercati sono da equiparare. Dunque, fuori la tassa e niente storie. E che vogliamo dire delle scuole private cattoliche? Insegnano le bischerate del Vangelo insieme con varie materie e, in cambio, riscuotono rette su rette e sono sempre più ricche. Non sfuggiranno: Ici estesa a istituti di qualsiasi ordine e grado, asili inclusi. Ecco, la giustizia. E con i fondi introitati il governo Prodi farà grandi cose. Mi meraviglio che il compagno Boselli, segretario dello Sdi, abbia trascurato le cassette delle elemosine: con un pizzico di impegno alcuni preziosi euro si gratterebbero anche lì. A Boselli segnalo volentieri un’altra furbata dei preti: circolano delle Madonne che compiono miracoli; di solito guariscono malattie e raddrizzano zoppi; e i miracolati e famigliari gettano fior di quattrini oppure accendono candele acquistate, a caro prezzo, da stregoni di rito cattolico. A giudizio di Boselli certe pratiche potrebbero sconfinare nell’esercizio illegale della professione medica. Ciò premesso, occorre precisare che la Casta dei politici e affini, mentre medita di infliggere l’Ici alle tonache (anche quelle della Caritas e delle comunità recupero tossicodipendenti), non sgancia un centesimo per saldare la medesima tassa sul patrimonio immobiliare dei sindacati (immenso nel caso della Cgil) e dei partiti. Vi piace lettori questa notizia? Impiccare il parroco ed esentare il sindacalista: siete d’accordo? La vostra opinione sull’ennesima idiozia della maggioranza mi sta a cuore.
LIBERO 4 settembre 2007

2)


LE TRE CHIESE Esenzioni Ici e regali. Tutti i favori ai sindacati

di SALVATORE DAMA

Vorrebbero far pagare l’Ici anche al regno dei cieli. Ma non si curano, quelli della sinistra, dei piccoli e grandi privilegi di alcune consolidate monarchie laiche e molto terrene.
Prendiamo i sindacati, per esempio. Lecito domandarsi, soprattutto dopo il clamore legato alle esenzioni che spettano alla Chiesa, se le confederazioni paghino l’imposta comunale sugli immobili. La risposta è no. Cgil, Cisl e Uil sono sollevate dall’obbligo di versare l’obolo alle casse dei comuni. E, come loro, anche i partiti politici che già godono del finanziamento pubblico. Un vantaggio non da poco. Che discende dalla legge 504 del 1992. All’articolo 7 la norma elenca i soggetti che sono esentati dal pagamento della tassa comunale. Tra questi figurano anche le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, le Onlus. Ebbene, al pari di queste ultime, vengono trattati anche sindacati e partiti. Specie i primi, però, hanno un patrimonio immobiliare di tutto rispetto. Ma molto, molto difficile da quantificare, perché la legge non obbliga i sindacati a rendere noti i propri bilanci interni. La Cgil dice di avere tre mila sedi in giro per l’Italia. La Cisl ne dichiara ancora di più, cinquemila. Il dato della Uil non è facile da reperire, perché il patrimonio immobiliare della confederazione di Luigi Angeletti è gestito da una società creata ad hoc, la Labour Uil, una spa che possiede immobili per 35 milioni di euro.
IL TESORETTO DEL DUCE
Se il sindacato ha a disposizione tutto questo mattone è grazie a una legge, la numero 902 del 1977. Si tratta della norma con la quale le principali sigle italiane hanno ereditato le sedi dei sindacati di epoca fascista. Gli immobili del Ventennio sono stati assegnati a Cgil, Cisl, Uil, Cisnal (l’attuale Ugl) e Cida (Confederazione dei dirigenti di azienda). Non solo. Anche le associazioni degli imprenditori hanno avuto la loro fetta di eredità. L’elenco è lungo e comprende, tra le altre, Confindustria, Confartigianato, Confcooperative, Confagricoltori, Coldiretti e Lega Coop. La legge 902 sanciva, inoltre, che il passaggio di proprietà degli immobili alle associazioni sindacali fosse «esente dal pagamento di qualsiasi tassa o imposta». Alle sedi ereditate dalle confederazioni fasciste, poi, ne sono state aggiunte ancora altre. Perché la Triplice non ha problemi di liquidità. Anzi, semmai il contrario: deve preoccuparsi di come investire le quote pagate dagli iscritti. E sono molti, ma molti soldi: un 1 per cento della busta paga per i lavoratori dipendenti, contributo che viene versato annualmente dal datore di lavoro. Nel caso dei pensionati, invece, ci pensano direttamente l’Inps e gli altri enti previdenziali.
IL BUSINESS DEI CAF
Ma le entrate dei sindacati non finiscono con il contributo degli associati. No. Altri soldi, stavolta versati dallo Stato, arrivano grazie a una legge del 1991 che permette alle associazioni riconosciute dal Cnel di poter creare i centri di assistenza fiscale, i Caf. Cosa sono? Un luogo dove lavoratori dipendenti possono rivolgersi per avere assistenza nella compilazione della dichiarazione dei redditi. Gratuitamente. Tanto a pagare ci pensa lo Stato che per ogni pratica compilata presso il Caf restituisce a quest’ultimo un compenso. Si varia dai 15,12 euro per un modulo 730, ai 29,74 euro per una dichiarazione dei redditi congiunta. È una torta da 330 milioni di euro l’anno. Spartita più o meno così: il 25 per cento alla Cgil, il 19 per cento alla Cisl, il 7 per cento alla Uil e la restante parte alle altre sigle. Ecco spiegato com’è che i sindacati hanno tanta liquidità da spendere nel mattone, investimento ancora più conveniente perché esentato, s’è detto, dal pagamento dell’Ici.
I SOLDI DEI PATRONATI
Tanto potrebbe bastare. Ma non è così evidentemente. Un altro strumento che permette a Cgil, Cisl e Uil di alimentarsi grazie al canale pubblico sono i patronati. Ogni sindacato ha il suo. Quello della Cgil è l’Inca, quello della Cisl l’Inas e quello della Uil l’Ital. A cosa servono? Semplice, per assistere i cittadini nel rapporto con gli enti previdenziali. Come i Caf, ma ad uso e consumo dei pensionati. Anche in questo caso fa da sponda una legge, la 152 del 2001. Funziona così: lo Stato assegna ai patronati lo 0,226% dei contributi obbligatori incassati dall’Inps, Inpdap e Inail. In soldoni, si parla di altri 310 milioni di euro all’anno, che vanno a sommarsi alle altre voci del capitolo entrate.
LIBERTÀ DI LICENZIARE
L’azienda sindacale italiana disporrebbe – e il condizionale è d’obbligo in assenza di bilanci pubblici – di una forza lavoro di 20 mila dipendenti. Con una peculiarità che riguarda solo l’am-biente lavorativo del sindacato e quello della politica: la licenza di licenziare. La Triplice ha fatto fuoco e fiamme quando il governo di centrodestra ipotizzò, nella scorsa legislatura, la possibile cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello relativo al licenziamento senza giusta causa. Guarda caso, però, questa è una tutela che ai dipendenti del sindacato non spetta. E ciò in ragione di un’altra leggina, stavolta datata 1990, che permette a Cgil, Cisl e Uil di dare il ben servito ai propri dipendenti senza tante storie. Per un diritto negato, però, ecco un altro privilegio accordato. Molti lavoratori impiegati nei sindacati e nei partiti politici, infatti, hanno potuto riscattare al costo dei soli contributi figurativi interi decenni di attività. E questo con un costo minimo per i sindacati (e i partiti) e un danno enorme per le casse dell’Inps. E poi se la prendono con i preti.
LIBERO 4 settembre 2007

3)


I veri privilegiati sono intoccabili

di OSCAR GIANNINO

Natale 2004. Don Alberto Lorenzelli diventa un bandito. Il Comune di Genova gli intima di pagare 700mila euro per Ici evasa: sull’istituto don Bosco, 870 alunni. In pochi giorni, in mezza Italia è caccia alla tonaca. Per una bislacca sentenza della Cassazione, che ora la sinistra riesuma La polemica sui presunti privilegi fiscali della Chiesa ci rimette così di fronte a un’amara realtà. C’è ancora e sempre qualcuno che preferisce barare e mentire, intorno all’interpretazione delle leggi italiane, pur di soffiare sul fuoco del presunto fantasma del potere clericale. Ma forse è il caso di rinfrescarsi le idee, perché la querelle ha una genesi assai istruttiva. È la Chiesa un soggetto esentato ad hoc dall’Ici in ragione di privilegi arbitrari nei suoi confronti? No, naturalmente, non lo è mai stato. Sin dall’introduzione dell’Ici nel 1992, si stabilì di esentarne alcune classi di fabbricati. Tutti quelli dello Stato, Regioni, Province, Comuni, Asl, ospedali, scuole, musei, biblioteche, Camere di commercio. Poi i fabbricati che nel registro catastale ricadono nella cosiddetta “classe E”: cioè stazioni, aeroporti, ponti, posteggi, fari, semafori, nonché edifici di culto di qualunque confessione ripetiamo e sottolineiamo per gli smemorati: qualunque confessione – abbia sottoscritto un’Intesa con lo Stato. Poi le proprietà di Stati esteri, tutti i terreni agricoli e montani. Il legislatore aggiunse poi all’esenzione quella degli enti non commerciali, tutte le organizzazioni e associazioni non a fini di lucro del terzo settore che costituiscono il “privato sociale”. Ma solo se gli immobili venivano adibiti a una di otto ben precise finalità: assistenza, previdenza, sanità, formazione, accoglienza, cultura, ricreazione, sport. Sembrava tutto chiaro. Ma, negli anni, nacque un problema interpretativo: come applicare l’esenzione Ici a quegli immobili ecclesiastici se l’ente proprietario lo utilizzava in forma da trarre un qualche provento, sia pure nelle attività comprese tra quelle elencate? Una scuola parificata, per esempio, è un’attività a fini di lucro da tassare o è una scuola da esentare? Un ospizio ecclesiale è da tassare per la retta? I Comuni iniziarono a sbizzarrirsi, ciascuno a suo modo. Roma adottò un criterio estensivo, chiedendo fino a 9 milioni di Ici l’anno alle proprietà ecclesiastiche sospettate di un qualunque provento. Idem dicasi per i criteri abbracciati a Napoli, a Firenze. Dovunque o quasi amministrasse la sinistra, fiorirono interpretazioni anticlericali. Alla fine, si giunse nell’ottobre 2004 a una sentenza della Corte di Cassazione – la 4645 – che si dichiarò a favore del criterio restrittivo. All’esenzione Ici, ostava se una delle attività previste nei criteri generali – sanità, previdenza, formazione, assistenza, eccetera – svolte in un immobile pur di un ente non commerciale, come quelli ecclesiastici, era offerta in forma commerciale. A quel punto, i Comuni si fecero sotto. E per i poveri don Lorenzelli cominciarono i dolori, con miliardi e miliardi di lire di Ici pregressa ingiunti e richiesti a tambur battente dai Comuni rossi agli enti ecclesiastici di mezza Italia. In teoria, i Comuni potevano richiedere Ici arretrato per ben cinque anni addietro. E non se lo fecero dire due volte. Il governo Berlusconi rimediò al pasticcio che si andava spandendo in mezza Italia con un’interpretazione autentica della norma originaria, per la verità in nessun modo equivoca, e la correzione che fece cessare il contenzioso venne varata con la legge 298 del 2 dicembre 2005. Venne così ribadita e disposta l’esenzione per tutte le otto attività elencate e svolte dalle onlus- non solo dalla Chiesa, ripetiamo – a prescindere dalla loro offerta eventualmente commerciale. Ma la polemica covava, tenace come una serpe, sotto la cenere. E Prodi, nella campagna elettorale 2006, si lasciò sfuggire a un certo punto, di fronte alla domanda di un giornale laicista che un tempo aveva sede nella romana piazza Indipendenza, che secondo lui le attività commerciali, quando svolte in immobili ecclesiastici, dovevano automaticamente renderli soggetti a Ici: rendendo con ciò evidente che nemmeno a lui, Prodi, è purtroppo chiaro che l’Ici è un’imposta patrimoniale che grava sul bene, e non sul reddito che attraverso di esso eventualmente si realizza. E dire che passa per economista. In poche ore, il candidato premier di fronte all’esplodere delle polemiche e all’insurrezione di mezza Margherita si rimangiò la dichiarazione. Ma la confusione continuava a regnava. Tanto che, nel presentare l’articolo 39 del decreto legge Visco-Bersani nel luglio 2006, il senatore Ripamonti dei Verdi si disse certo che il testo ripristinava l’Ici sugli immobili ecclesiastici dove si svolgano attività esclusivamente commerciali. Non era così, naturalmente. Il testo non prevedeva affatto ciò che Ripamonti pensava, e la legge continua a prevedere che la contestualità tra fine di culto e uno degli otto fini previsti per l’esenzione configuri piena esenzione. Un’esenzione che, come si è visto, negli otto settori di attività non è mai valsa solo per la Chiesa, ma per tutte le onlus e tutto il privato sociale che noi liberali difendiamo a spada tratta, al di là dei conti col Padre Eterno che ciascuno di noi si fa nel privato della coscienza. Perché il privato sociale è l’unico rimedio ai fallimenti del welfare di Stato, ipercaro, iperburocratico, iperinefficace. Di fronte al fallimento del tentativo parlamentare, nasce l’istanza alla Commissione Europea che la settimana scorsa ha riattizzato la volontà di parti della sinistra italiana di incarcerare preti e suore come evasori incalliti. Al di là dell’ipocrisia evidente, di voler applicare ai rapporti tra Stato e confessioni religiose legate da Intese – non solo quella cattolica, appunto – il diritto della concorrenza, c’è un’ipocrisia ancora più grave. Che la dice lunga, sulla barbarie morale in cui questa polemica rischia di sprofondarci. Possibile mai che tutti accettino come oro colato che i sindacati – i sindacati che non offrono scuole e ospedali, ai loro iscritti né a terzi – non debbano neanche dichiarare nel loro bilancio patrimoniale tutte le migliaia e migliaia gli immobili di cui sono proprietari, e su cui naturalmente non pagano l’Ici, mentre mezza Italia insorge poi in nome della pretesa eccezione clericale? E quale eccezione, se nelle legge della Repubblica il regime preferenziale non c’è mai stato sin dall’inizio? Un Paese in cui al potere e al prepotere sindacale nessuno eccepisce, mentre ci si torna a dividere sul valore sociale di scuole materne, case di riposo, strutture di accoglienza per studenti e lavoratori fuori sede e mense per indigenti sol perché gestite dalla Chiesa, rischia di non essere o diventare un Paese senza Dio. Ma qualcosa di peggio, addirittura. Un Paese in cui l’unico Dio rischia di divenire lo Stato in quanto tale, e innanzitutto le sue presunte e discrezionali articolazioni di parte: i partiti – non pagano l’Ici neppure loro, naturalmente, eppure sfido chiunque adire che esercitino attività che ricadono negli otto settori prescritti – e i sindacati, appunto. Un Paese in cui a godere di privilegi fiscali sono proprio coloro dalle cui mancate risposte derivano i problemi irrisolti che il privato sociale tenta di affrontare in nome della sussidiarietà. Un Paese in cui l’ideologia acceca ancora tanti. Mentre chi crede nella centralità della persona e della famiglia non può che tenere gli occhi ben aperti, per evitare che alla fine i don Lorenzelli diventino banditi, mentre i veri lupi banchettano alle loro spalle.
LIBERO 4 settembre 2007

4)


Partiti, sindacati e l’Ici della discordia

di GIANLUIGI PARAGONE

Cornuti e mazziati no. Per rispondere a Libero, partiti e sindacati usano l’ironia napoletana. «Noi l’Ici l’abbiamo sempre pagata. E pure cara». Ricapitoliamo. Ieri abbiamo ricordato una regoletta del ’92 che interpretata in un certo modo dà a una serie di enti – oltre a quelli pubblici – la possibilità di non pagare l’Ici. Tra questi ci sono anche gli edifici di culto (di qualunque confessione), le organizzazioni e le associazioni non a fini di lucro del terzo settore che costituiscono il “privato sociale”. Partiti e sindacati, inclusi. Questo sarebbe lo stato dell’arte. «Non è vero», si sono difesi politici e sindacalisti. «Eccome se paghiamo». Come stanno le cose veramente? Abbiamo chiesto lumi al ministro dei Lavori Pubblici, Antonio Di Pietro. In sostanza – è stato il ragionamento dell’ex pm – la questione è molto tecnica, nel senso che i partiti, non avendo personalità giuridica, hanno uno status normativo particolare. Non esclusivamente dei partiti, sia chiaro. Ne abbiamo parlato anche con altri parlamentari e con qualche giurista. Senza farla troppo lunga coi tecnicismi, se un immobile è intestato direttamente al partito, il partito non ha l’obbligo di pagare l’Ici proprio perché la norma gli consente l’esenzione. Tuttavia alcuni partiti (soprattutto quelli grossi) hanno in pancia un bel po’ di palazzi, uffici, edifici. Di questi immobili, i partiti girano la proprietà e affidano la gestione a società terze, le quali l’Ici lo devono pagare. In quanto sono escluse dalla lista dei fortunati. È la soluzione scelta anche dai sindacati. Angeletti, Bonanni ed Epifani hanno smentito il mancato pagamento dell’imposta comunale sugli immobili. «Fino a vent’anni fa, succedeva che la proprietà degli edifici fosse intestata pro tempore ai segretari generali», ci ha spiegato il leader della Cgil Guglielmo Epifani. «Capitava però che, alla morte, qualcuno dei parenti rivendicasse tale diritto. Proprio per evitare simili inconvenienti, il sindacato ha deciso di organizzarsi diversamente. L’Ici la paghiamo eccome e pure cara. Se vuole vi mandiamo la copia di quanto versiamo per l’edificio di corso Italia a Roma… Vorrei che fosse chiaro ai cittadini: noi l’Ici la paghiamo». E meno male, l’ingiustizia sarebbe stata il contrario. Giallo risolto, insomma. Come sempre, anche stavolta il tecnicismo della normativa fa figli e figliastri. Le precisazioni dei diretti interessati hanno il pregio di accertare chi paga e chi no. Nessuno s’è nascosto e diamo a Cesare quel che è di Cesare. Nessun pregiudizio o entrata a gamba tesa. Usciamo ora dal caso specifico e allarghiamo la discussione, riprendendola laddove era cominciata. Se è vero che ad alcuni soggetti l’articolo 7 della legge 504 del ’92 concede l’esenzione dal pagamento dell’Ici e se è vero che una lettura estensiva dell’elenco include altre associazioni ed enti, perché il governo e il centrosinistra vogliono usare le maniere forti con- tro la Chiesa obbligando le parrocchie a pagare l’Ici anche sui campetti da calcio, i cinema oratoriali e edifici simili? La questione è innanzitutto politica, più che fiscale. Dei preti si può dire tutto e il contrario di tutto, ma non si può negare il valore, il ruolo sociale che ricopre la parrocchia. Spesso, in piccole comunità l’oratorio è il solo ritrovo possibile. È grazie a un curato brontolone e attempato se i ragazzi non si perdono per strada. Basta un pallone, un film proiettato, un tavolo da ping pong per non far pagare alla società i costi dell’emarginazione: droga, alcol, violenza. Obbligare la parrocchia a pagare l’Ici perché il bar dell’oratorio vende i gelati e le cicche è una cretinata colossale. Io stesso, dietro un banco di quei baretti, ci sono stato e so per certo che, se non fosse perché è l’ultimo ritrovo della comunità, il don avrebbe già chiuso la baracca. Cosa volete che guadagni un parroco con cinque bicchieri di Coca, due bianchini e tre gelati? Dài, siamo seri… Eppure di questo si parla. Degli oratori che fanno attività commerciale o delle scuole dei preti e degli asili delle suore dove si pagano le rette: paghino l’Ici fino all’ultimo centesimo. Lo decide la liberal Comunità europea? Sai che roba. Ma sì, tartassiamo anche la Chiesa e poi vediamo se non la finisce di intromettersi. Facciamoli neri come le tonache. Chiudano bottega, così poi toccherà allo Stato fare quello che finora non ha fatto perché tanto c’erano i pretoni e il volontariato cattolico. Incluso pulire il culo ai vecchi e agli handicappati.
LIBERO 5 settembre 2007