Eluana, i medici della clinica di Udine si ribellano: ”Non siamo un mattatoio!”

A giorni la decisione dei vertici della casa di cura che s\’è offerta di far morire la giovane donna.
Appello dei camici bianchi: «Fermiamoci». Dell\’operazione avevano saputo dai giornali

«Se prima eravamo sconcertati oggi siamo esterrefatti. Il rapporto di fiducia tra noi medici e la struttura sanitaria per cui lavoriamo si è spezzato. L’appello ai nostri capi? Fermatevi». Sono molti i camici bianchi della \’Città di Udine\’ – il policlinico che vorrebbe «accompagnare alla morte» Eluana – che esprimono disaccordo con i vertici. Molti (e diversi) i motivi della loro indignazione. «Alcuni di noi sono profondamente colpiti dal punto di vista etico e umano – specifica uno di loro, altri invece non accettano l’arroganza con cui gli amministratori hanno gestito la cosa, mettendoci di fronte al fatto compiuto e costringendoci a saperlo dai giornali. Una terza parte, infine, non ammette che si siano rivolti a un’équipe esterna di cosiddetti volontari, anziché chiedere a noi se eravamo disposti a staccare il sondino: è indice di coscienza sporca. E come li hanno reclutati, visto che il progetto era così segreto? Chi c’è dietro?». Può darsi, come hanno spiegato gli avvocati della famiglia Englaro, che si volesse evitare una possibile obiezione di coscienza.
Ma allora la cosa è ancora più triste, per noi: la nostra casa di cura \’svenduta\’, cedendo i muri ma prendendo le distanze da quanto vi sarebbe avvenuto dentro… Si sono fatti tristi paragoni, in queste ultime settimane di angoscia.

Ovvero?
Parlando tra medici e infermieri, si è detto che i nostri capi hanno fornito il mattatoio… Anche il rapporto con la cittadinanza è cambiato da quando la \’Città di Udine\’ è finita sui giornali: telefonate ingiuriose, epiteti poco edificanti arrivati via fax, sfoghi di grande amarezza da parte dei pazienti. L’altra mattina stavo visitando una coppia, la moglie mi ha detto «è qui che forse verrà a morire Eluana?», il marito l’ha corretta: «No, è qui che la ammazzano». Per noi che abbiamo dedicato la vita a curare il malato è umiliante, c’è solo da abbassare gli occhi.

Sono queste le ore in cui la casa di cura deciderà se accogliere Eluana. Lo ha annunciato tre giorni fa l’am­ministratore delegato Riccobon. Che cosa vi aspettate?
Abbiamo commentato a lungo la sua dichiarazione senza riuscire a interpretarla. La nostra speranza è che si rinunci al business che pensiamo possa esserci dietro e si torni alla normalità. La \’Città di Udine\’ è un’ottima struttura sanitaria e ha sempre operato in collaborazione con l’ospedale civile della città, in perfetto regime di sussidiarietà tra pubblico e privato. Ora tutta questa pubblicità negativa rischia di vanificare anni di fiducia e professionalità.

Riunioni in corso, dunque… Quale può essere lo scoglio tuttora ritenuto insormontabile dai vertici?
L’atto di indirizzo con cui il ministro Sacconi il 16 dicembre ha ricordato che sospendere l’alimentazione assistita a un disabile è illegale. Riccobon continua a sostenere che, essendo la nostra una struttura privata, resta al di fuori del servizio sanitario nazionale, ma questo logicamente è ridicolo. Me ne andrei da qui se davvero il luogo in cui la­voro fosse una enclave senza legge.

Qual è la cosa che vi ha colpito di più?
L’essere stati tenuti all’oscuro di tutto. Averlo saputo dai giornali e dalle tivù. Ovviamente la prima reazione è stata di incredulità, non era possibile che nessuno di noi avesse saputo nulla, nemmeno in accettazione, neppure nel reparto di medicina o tra gli infermieri. Poi, quando abbiamo capito che era vero, ci siamo chiesti \’perché qui\’. Non capivamo all’inizio le vere motivazioni che muovevano i responsabili del policlinico a una scelta così suicida.

E ora? Le avete capite?
In Regione antichi legami di amicizia con la famiglia, e nella \’Città di Udine\’ – come alcuni dicono – interessi economici. Poi in questo intrico di concause c’entra anche il laicismo esasperato di qualcuno dei responsabili e di qualche suo mentore. E naturalmente la deriva professionale cui la nostra categoria sta andando incontro da tempo: che dei medici si prestino a spegnere una vita anziché dare cura al malato è qualcosa di inimmaginabile fino a pochi mesi fa.

Che cosa la maggior parte di voi non perdona alla casa di cura, in tutto ciò?
Parlando tra noi, quello che più ci ha indignato è stato quel termine, pietas, con cui Riccobon ha ammantato di generosità la sua scelta. Io non sono credente, ma anche per gli antichi pagani la pietas era sempre legata alla sacralità della vita e all’amore per il prossimo. Abbiamo realmente temuto che la cosiddetta \’pietas\’ dei nostri capi arrivasse al punto di far morire Eluana nei giorni di Natale, approfittando che gli ambulatori erano deserti e la maggior parte di noi era assente. Per ora è andata bene, ma tira ancora una brutta aria…

Lei è padre, come Beppino Englaro…
Non c’è giorno che io non mi metta nei suoi panni. Guardo mia figlia e provo a pensare che cosa farei se fossi in lui. Vorrei parlargli, dirgli che aveva la soluzione in casa, quelle benedette suore di Lecco che la amano e che dicono «noi da Eluana riceviamo tanto». Parole incredibili: quale soddisfazione più grande di tua figlia che ancora può dare, che ancora dona amore? Io gli auguro di cuore che un giorno lo capisca, prima che sia tardi.

Lucia Bellaspiga, Avvenire, 6 gennaio 2009