Ecco il don Giussani che non conoscete

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COSÌ NEL ’48: «CHI NON UBBIDISCE AL PAPA NON PUÒ DIRSI CRISTIANO»

Esce un nuovo libro con documenti fotografici ed epistolari inediti. Presentazione del libro e e anticipazione di una interessante lettera del 18 aprile del 1948…

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COSÌ NEL ’48: «CHI NON UBBIDISCE AL PAPA NON PUÒ DIRSI CRISTIANO»


di LUIGI GIUSSANI


La guerra è finita. Patisce tanto, don Giussani in quegli anni, nel vedere lo scivolamento di tanta parte del popolo brianzolo verso l’utopia comunista, quasi senza che la gente avvertisse di negare in tal modo la propria tradizione. A Desio il municipio era passato nelle mani di un comunista come Enrico Novati. Non ci furono esecuzioni sommarie. Quando le si stava perpetrando, intervenne con vigore il prevosto monsignor Bandera, figura fortissima e ascoltata da tutti. Nei suoi diari ho potuto leggere pagine di costernazione per i bombardamenti e di speranza per l’avvento della libertà portata dagli angloamericani. Però l’ideologia comunista avanza con la forza dei sogni. Non si preoccupa della politica o dei sistemi connessi a questa o quell’idea, a don Giussani dispiace per le persone che abbandonano la via della Chiesa. Scrive, probabilmente da Desio, il 2 settembre del 1945: «Sento passare, è da due ore e più che passano, i tram e camion colmi di uomini e donne che fecero nei boschi di Mariano (Mariano Comense, a 12 km da Desio, ndr) la “Scampagnata dell’Unità”: e piango, piango come un bambino: il Signore ci ha messi al mondo per la felicità, perché tanta gente si fabbrica un’effimera illusione che li porterà all’eterna infelicità: il pensiero dell’infelicità eterna dei miei fratelli uomini – il pensiero dell’infelicità terrena degli uomini». Gli premeva allora, gli premette tutta la vita che nessuno potesse star fuori dall’abbraccio di Cristo. A lezione diceva: «Dopo che Lo hai riconosciuto, nessuno che trovi sul tram ti è estraneo». Nemmeno i comunisti in festa, con cui in quegli anni è scontro tremendo. Vuol bene a loro, ma non sopporta – come già abbiamo visto – l’inganno che si cela in quelle illusioni. Decide di far qualcosa. Scrive due lettere. Le batte a macchina, usa la copia carbone. Con l’aiuto della sorella recupera gli indirizzi dei suoi coscritti, compagni di oratorio e di prima comunione. E scrive una lettera a loro per il 18 aprile. Lo stesso farà con gli amici di famiglia, da lui invitati alla Prima Messa in Basilica. Impressiona, in queste lettere, il fatto che non c’è nulla di ideologico. Non c’è giudizio sulle persone, e persino non si entra nel merito delle tesi politiche. Solo egli espone se stesso, la sua fiducia nella Chiesa come fatto misterioso, che si regge sull’obbedienza. È come scrivesse per obbedienza. Non l’obbedienza strozzata e senza ragioni, ma quella vibrante di chi sa che da lì passa il Destino buono. (Renato Farina)


Milano, 12 aprile 1948
Mio caro amico, forse ti sembrerà strano ricevere questa mia lettera, e a prima vista ti sembrerà ancor più sconveniente il contenuto. Ma il tuo buon senso saprà comprendermi e l’amicizia che ci lega mi saprà perdonare se, cercando di assolvere un mio preciso dovere di coscienza, urterò forse la tua suscettibilità. Una quindicina di anni fa mi chiamavi “Gigetto” o “Gigi” e ci si faceva compagnia. Ora mi chiami col “Don” e non ci si vede che raramente: tu hai preso la tua strada, io ho preso la mia. Tu le tue idee, io le mie. Ma, io spero che, oltre l’amicizia di coscritti, noi continuiamo ad avere ancora una grande cosa in comune: il rispetto alla tradizione cristiana lasciataci dai nostri vecchi, la fede nella Chiesa di Dio. Ci si sta avvicinando ad un giorno che è decisivo per la vita della nostra religione. Tu hai già capito, e forse ti cominci a ribellare a ciò che dico. Ti hanno già persuaso che la Chiesa e la Religione col 18 aprile non c’entrano. Ti han già persuaso che che c’è tutta una montatura dei preti “che fan politica”. Ti han già persuaso che si può essere comunisti e rimanere cristiani. Io volevo semplicemente dirti che: giudici e responsabili del cristianesimo non sono i capi di partito o i propagandisti che dominano la situazione negli stabilimenti. I giudici e i responsabili del Suo Cristianesimo li ha creati Gesù Cristo nel Vangelo, e non il Papa e i Vescovi. Ad essi Dio ha detto (Vangelo di S.Matteo): «Qualunque cosa voi condannerete sulla terra, la condannerò anch’io nel cielo. Chi ascolta voi ascolta me; chi non ascolta voi non ascolta me». E questo significa che chi non ubbidisce al Papa ed ai Vescovi non è più Cristiano. (…) Senti amico, tu non puoi rimproverarmi se con queste mie parole ho voluto anch’io contribuire a che tu per l’atto decisivo del tuo voto ti abbia a mettere una mano sulla coscienza. Ricordati che è una illusione sperare in un benessere economico da movimenti contrari – anche se non ne sei persuaso alle leggi di Dio e della Chiesa. Non si può servire a due padroni (Vangelo). Non si può pretendere che la Chiesa benedica il tuo matrimonio o la tua morte, perché ti comoda così e poi sostenere quelli che ne sparlano e la calunniano. Dio non si prende in giro. Credimi, è con tutto il mio solito espansivo affetto che io ti prego: non agire per inqualificabile avversione verso l’Idea Cristiana, non ascoltare chi ti riempire la testa di antipatia e di sfiducia, verso il segno della Croce che è il Segno della Fede dei tuoi vecchi, compi un atto di fede nella tua religione che ti ha battezzato, che ti ha educato, che salverà la tua anima. Ascoltami, amico, se non vuoi avere una tremenda responsabilità: per sempre.
Credimi: non sono un impostore: tu mi conosci.
Ti stringe la mano il tuo affezionatissimo amico
Don Luigi Giussani


LIBERO 15 febbraio 2007



2)


ECCO IL DON GIUSSANI CHE NON CONOSCETE


“Don Giussani Vita di un amico” di Renato Farina esce per l’editore Piemme martedì prossimo, 20 febbraio (190 pagine, 13,50 Euro). Il testo, dedicato alla vita del sacerdote brianzolo scomparso il 22 febbraio 2005, contiene documenti fotografici ed epistolari inediti


Un giorno d’estate del 1995 don Luigi Giussani mi domandò di scrivere la storia di Comunione e liberazione. Mi disse: «La storia del movimento è un miracolo. Il movimento c’è perché Dio ha voluto fare un miracolo dove meno tutti se l’aspettavano. Devi restituire con lo scritto questa sorpresa, lo stupore di un miracolo, come la prima alba». Ci incontrammo molte volte nei mesi successivi. Sei-sette colloqui si svolsero alla presenza di alcuni amici e collaboratori della prima ora, altri furono a tu per tu, dove abitava in via Martinengo o dove capitasse. Ero l’uomo più fortunato del mondo. Potevo accedere quando volevo ad una delle più grandi personalità di quest’ultimo secolo. Mi consentì di leggere suoi antichi appunti, potevo guardare dentro la valigia delle sue cose più belle e riposte. Sono un disgraziato. A un certo punto rinunciai. Ero diventato vicedirettore di Vittorio Feltri al “Giornale” nell’ottobre del 1996, e la pratica fu chiusa. Disse: «Va bene, ma…». Restituii le carte, le agende, i bloc notes con le mie sintesi, non conservai nulla. Mi odiavo. Negli ultimi tempi della sua vita però don Giussani si ricordò di quel progetto (in realtà ogni volta che ci vedevamo scorgevo nei suoi occhi il disappunto e poi il perdono di quella mia fuga per la carriera). Accettò volentieri la pubblicazione di un libro con le interviste “ufficiali” che mi aveva accordato in venti e più anni. Siccome mi vergognavo, e volevo fosse libero di lasciar cadere la cosa, la richiesta gli fu posta da Gisella Corsico e da Alberto Savorana, le persone a lui più vicine e a cui sono ancora grato per quel sì. Scrissi l’introduzione, affastellando in un mosaico confuso episodi e detti vissuti con lui in giro per il mondo. Lo rividi dopo e mi confermò: «Non è questo libro la nostra opera, mi aspetto qualche cosa d’altro da te. Ti ricordi, vero?». Mi ricordo. Ho frugato nella memoria, nei testi disponibili a stampa, in quaderni sepolti in archivi e in bauli. Soprattutto ho tenuto davanti il suo volto, e quello di mia moglie e dei suoi amici (lui è lui ma anche di più: don Giussani è i suoi amici). Quasi ogni giorno, dal febbraio della sua morte, sono andato a guardare, e spero a farmi guardare, da quegli occhi, incorniciati sulla tomba al cimitero Monumentale di Milano, zona Famedio, dove Giussani giace, ma di certo non è immobile. C’è la sua fotografia presa durante la sua ultima intervista, condotta da Roberto Fontolan. C’è l’essenza di don Giussani in quella faccia. Commossa, triste ma contenta, realista e dunque capace di scorgere e di palpare Dio nelle cose, in me e in te, amico che leggi. Un uomo vivo che non sta mai fermo
Dicevo che non sta fermo, don Giussani. Ad esempio, già al cimitero muta l’ambiente circostante. Cambiare. Trasformare. Rendere più umani noi stessi e dunque il mondo. Quando lo incontrai per la prima volta avevo sedici anni e lui, cinquantenne, mi pareva vecchissimo. Ma leggeva il mio cuore, il cuore di tremila liceali: la voglia di felicità, di baciare quella ragazza e di combattere per i poveri, e gustare la poesia e il cibo, e guardare il cielo, sentire la musica, ed essere amati senza morire. Tutto. Non meno di tutto, e subito, adesso, non nel cielo dopo la morte. Non le regole, ma il senso della vita. E perciò il desiderio di cambiare noi stessi e il mondo. Da sempre l’uomo è stato tutto in questo desiderio. Si capiva che l’unico motivo per cui Giussani stava in mezzo a noi era perché il suo-proprio-suo Gesù Cristo gli aveva comunicato che aveva una risposta buona per noi. Una delle prime cose che gli udii dire, in una “tre giorni” a Pesaro, nel settembre del 1971 fu la citazione di un frammento di un filosofo greco: «Mandaci, o padre Zeus, il miracolo di un cambiamento». Disse: «Pensate… Il primo vagito della filosofia, di un uomo che riflette sul suo destino, è questa mendicanza». Citava a memoria, e mi è rimasto stampato dentro. Non avevo mai trovato conferma. Finché, poco tempo fa, ho recuperato il frammento 38 di Simonide, sesto secolo avanti Cristo: «Dormi bambino, dorma il mare, dorma lo sconfinato male; ma, se è possibile, un cambiamento venga da te, padre Zeus». Il senso religioso, il cuore dell’uomo, il «mazzolin di fiori» (lo chiamò così in una delle conversazioni per scrivere la storia che non ho scritto) non è un fosso da riempire di impalpabile soprannaturale, ma è la domanda innamorata che questa nostra vita materiale, l’amore per la donna, la politica, il lavoro, gli amici, il tempo libero siano utili, abbiano un destino, non siano un giro di giostra per dimenticare il nulla in cui sprofonderemo. «Pulvis et umbra», poetò Orazio. No, che non sprofonderemo nel vuoto. Don Giussani lo scrisse ventiquattrenne all’amico del cuore: «Sei pulviscolo, ma sei mare» (12 dicembre 1946). Questo è l’uomo: un guazzabuglio di finitezza e di immensità. «Cosa c’entra Cristo con la matematica? Con il pullman preso la mattina, con gli occhi della compagna di banco?». Lui fa fiorire le ossa in questo deserto, il Suo lieve giogo ci conduce adesso, qui, ora – in pascoli smaltati di piccoli fiori, che secondo santa Teresa di Lisieux è il modo migliore per immaginarsi il paradiso. Insomma, sto facendo confusione. La stessa di quell’altra introduzione alle interviste.
ANCHE IL FAMEDIO È CAMBIATO
Volevo dire che persino il Famedio del Monumentale di Milano è cambiato grazie a lui. Bisogna sapere che questo bellissimo camposanto progettato dall’architetto Carlo Maciachini a metà Ottocento è stato pensato senza il crocifisso sulle cappelle. Diciamocelo: è un tempio massonico. La morte è greve. I marmi sono lividi. Cercano di far durare nel tempo la gloria, ma si capisce che vince la morte. Nel Famedio giacciono, il piano di sotto rispetto al sarcofago di Alessandro Manzoni, i milanesi illustri degli ultimi secoli. A me piace ricordare che ci sono Antonio Maspes, favoloso corridore su pista, celebre per il surplace, e Giorgio Gaber, il cantautore che anche Giussani amava per quell’ironia triste ma non disperata di fronte alla vita. Tutte quelle tombe, incassate nei muraglioni, erano tetre, immusonite. Poi è arrivato don Giussani. Sulla lapide c’è la foto, e una sua frase, coniata nell’ottobre del 2004, per il pellegrinaggio alla Madonna di Loreto dei suoi ciellini in occasione del ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità. «Oh Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza!».
L’INFINITO AMATO GRAZIE A DANTE
In quell’ooohhh con l’accento di sospiro, e in quella certezza nella Madonna «di speranza fontana vivace» (Dante, Paradiso), c’è il Gius. Desiderio di infinito, ma questo infinito qui, nella terra, nel sasso. Insomma, la gente porta bigliettini e fiori. Rose, peonie, ciclamini, un rigoglio che sfida il buio di quella specie di tunnel funerario. Ecco, piano piano c’è stato un contagio. In centocinquant’anni mai c’era stato un mazzolino di margherite, al massimo roba di plastica. Ed ora è uno sbocciare davanti a ogni loculo, in modo ordinato, sereno. Ho scritto “il Gius”: è stato chiamato presto così dai suoi compagni di seminario. Il primo a definirlo in tal modo è stato il suo amico Ruben Enrico Manfedini, in una lettera sequestrata dai superiori. Era una specie di bollettino di una compagnia clandestina di cristiani, che sorgeva nel gelo ecclesiastico come una fontana zampillante: e qui si torna alla Madonna.
IDEALI DI GIOVENTÙ ANCHE DA VECCHIO
L’introduzione finisce subito. Vuole essere un’avvertenza. Questa non è una biografia ufficiale, e tanto meno completa. Ha per me lo scopo di cominciare a pagare un debito verso chi, insieme con mio padre e mia madre, mi ha dato la vita. Scrivere queste pagine è cercare di non sprecarla. E magari spingere qualcuno, per curiosità, ad alimentare un desiderio sepolto. Non è un ricordo, ma il modo con cui riconosco la Presenza che mi ha suscitato la speranza. Così auguro al lettore. Avevo preso nota di una frase, in quel 1995: «Dio permette di rendere il passato strumento per una Sua modalità presente». Cito la lettera che don Giussani, ventitreenne, scrisse al suo amico Angelo Majo, di lui poco più giovane: «”Non rinnegare mai gli ideali della tua gioventù” diceva il marchese di Puena a Carlo V adolescente. Ti assicuro che la giovinezza è tutta nell’infinità dei desideri, e dei sogni che ora scrollano la tua anima magnifica. Ti assicuro che Lui ci dona la possibilità di realizzarli: e che la nostra giovinezza non cessa mai: in liceo mi dicevano: “fuoco di adolescenza”: come mai ora mi è cresciuto?… Perdonami, raccomandami alla Madonna, vivi pazzo – “matto” – con letizia». È il 9 gennaio del 1946 (“Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo”, San Paolo). Firma: «Sempre tuo aff.mo don Luigi». Affezionatissimo a me, affezionatissimo anche a chi tra voi comincerà a conoscerlo adesso.


di RENATO FARINA


LIBERO 15 febbraio 2007


IL LIBRO
LA BIOGRAFIA
“Don Giussani Vita di un amico” di Renato Farina esce per l’editore Piemme martedì prossimo, 20 febbraio (190 pagine, 13,50 Euro). Il testo, dedicato alla vita del sacerdote brianzolo scomparso il 22 febbraio 2005, contiene documenti fotografici ed epistolari inediti
CHI È Luigi Giussani è nato a Desio, in Brianza, il 15 ottobre 1922. Seminarista a Venegono, ha lasciato gli studi teologici per dedicarsi – alla fine degli anni ’50 – all’insegnamento nelle scuole superiori (in particolare al Liceo Berchet di Milano). Qui ha dato vita al movimento di Gioventù Studentesca, poi sfociato nel 1969 in Comunione e Liberazione, oggi diffuso in oltre 70 paesi di tutto il mondo. È scomparso il 22 febbraio 2005, dopo un periodo di malattia. I suoi funerali sono stati celebrati due giorni dopo nel Duomo di Milano, dal cardinal Joseph Ratzinger, due mesi prima che fosse eletto Papa. Il libro contiene il testo della predica pronunciata a braccio dal futuro Benedetto XVI SU
RETE 4 Domenica prossima, 18 febbraio, alle 17.30 su Rete 4 è prevista una puntata del programma “Vite straordinarie” dedicata a don Luigi Giussani. Lo speciale contiene interviste, filmati inediti e e un’intervista a Don Juliàn Carròn, il sacerdote spagnolo successore di Giussani alla guida di Cl.