Cure palliative al bivio: eliminare la sofferenza non il sofferente

di Claudia Navarini


Negli ultimi trent’anni si è sviluppato un sempre maggiore interesse dell’assistenza sanitaria nei confronti della cura ai morenti o, come più frequentemente vengono chiamati, ai “malati terminali”. Tale assistenza ha progressivamente acquisito nuove possibilità ed ambiti di intervento, per varie ragioni: l’allungamento della vita che ha generato un alto numero di persone (per lo più anziani) con problemi di malattia cronica e/o degenerativa inguaribile; l’affinamento delle competenze nel trattamento dei sintomi correlati alla fase terminale di malattia, soprattutto del dolore; la sensibilità delle società occidentali per le problematiche legate alla cosiddetta “qualità della vita”; la disponibilità economica dei paesi industrializzati di predisporre personale, tecnologia e strutture anche per coloro che non hanno più realistiche possibilità di guarire o di migliorare il quadro clinico complessivo, laddove questi pazienti , in contesti socio-economici disagiati sono generalmente lasciati alle cure esclusive della cerchia familiare.

È così cresciuta notevolmente la cultura delle cure palliative, ovvero la conoscenza e la diffusione di un tipo di assistenza – non solo sanitaria – che si occupa non solo di intervenire nel decorso di una patologia, oramai giunta a gravità estrema, ma di controllare i sintomi che si accompagnano alla malattia, e che sono causa di disagio e di sofferenza per il paziente. Parallelamente, tali cure promuovono il benessere della persona morente e dei suoi familiari prestando un’attenzione specifica agli aspetti psicologici e spirituali, e prolungandosi talora nel supporto all’elaborazione del lutto (successivamente al decesso del malato). La medicina palliativa e le cure palliative in genere, dunque, non hanno finalità propriamente terapeutica, ma mirano ad aiutare le persone nel tempo che contraddistingue l’avvicinarsi della morte e il prepararsi ad essa (cfr. M. Iceta, Le cure palliative, risposta adeguata alla situazione terminale o cronica di malattia, in Noriega J., Di Pietro M.L. (eds.), Né accanimento né eutanasia, Lateran University Press, Roma 2002, p. 165-171).

È dunque un campo che si occupa eminentemente della qualità della vita, come sottolinea la più recente definizione di cure palliative proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 (cfr. C. Sepúlveda et al., Palliative Care. The World Health Organization’s Global Perspective, “Journal of Pain and Symptom managment”, 24, 2, Aug 2002, p. 91-96; cfr. anche in
http://www.who.int). Qui si profila, tuttavia, un bivio cruciale che trae la sua origine proprio dal dibattito sulla nozione di qualità di vita, oramai consolidato perché contestuale alla nascita stessa della bioetica.

La linea di pensiero che più frequentemente si è appropriata di tale nozione pretende di valutare attraverso un “giudizio di qualità” – potenzialmente arbitrario in quanto soggettivo – la dignità e il valore della vita umana, ritenendo che, ad esempio, in alcune situazioni di malattia grave o di compromissione della vita relazionale sia da preferirsi la morte, da ricercarsi come mezzo per eliminare tali condizioni di sofferenza. Tali vite “compromesse”, in altre parole, non varrebbero la pena di essere vissute (cfr. D. Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Laterza, Bari 1995).

Al contrario, la nozione di “sacralità della vita” riconosce un valore intrinseco e ineliminabile in qualsiasi vita umana indipendentemente dalle sue condizioni, in virtù della dignità personale umana presente in ogni istante dal concepimento alla morte. Tale valore, dunque, non “viene attribuito” da una volontà finita – dal soggetto o da altri individui o dalla società – ma viene “trovato” e “ricevuto” come dato contenuto nella legge naturale accessibile all’uomo mediante la riflessione intellettiva. In tale prospettiva è possibile, forse, anche un recupero in positivo del concetto di “qualità di vita” così come viene veicolato appunto dalle cure palliative rettamente intese (Jonsen A.R., Siegler M., Winslade W.J., Etica clinica. Un approccio pratico alle decisioni etiche in medicina clinica, ed. it. a cura di A.G. Spagnolo, McGraw-Hill, Milano 2003, p. 127-178).

Il bivio in cui si colloca la “qualità della vita”, infatti, trascina in una duplice interpretazione anche il significato delle cure palliative, da una parte intendendole come baluardo contro l’eutanasia, dall’altra come possibile giustificazione dell’eutanasia stessa. Questo punto essenziale dell’etica di fine-vita si inferiva nel XIX Congresso Internazionale del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute su “Le cure palliative” (Città del Vaticano, 11-13 novembre 2004). Come ha spiegato il Presidente del Pontificio Consiglio organizzatore, il cardinal Javier Lozano Barragán, una sezione del convegno riguardava la “realtà” delle cure palliative, e si proponeva esplicitamente di indagare “che cosa sono” e “che cosa non sono”, ovvero forme – anche camuffate – di eutanasia.

Dalle riflessioni e dalle testimonianze offerte dai relatori è emerso una volta di più come le cure palliative possano rappresentare un vero e proprio antidoto alle richieste eutanasiche, e come per converso l’introduzione di normative favorevoli all’eutanasia determini una drastica diminuzione della somministrazione di cure palliative ai morenti, più rapidamente “gestiti” attraverso la loro eliminazione. È questo uno dei dati che vengono dall’Olanda, primo paese al mondo ad avere legalizzato l’eutanasia, nel 2002 (Fenigsen R., Dutch euthanasia: the new government ordered study, “Issues Law Med.”, 20(1), Summer 2004, p. 73-79).

Gli studiosi che difendono la medicina palliativa sono generalmente contrari all’eutanasia come “soluzione” ai problemi di fine-vita. Tuttavia, si scorgono fra coloro che propugnano la diffusione delle cure palliative in funzione anti-eutanasica alcune posizioni ambigue, che combattono una eutanasia dalla definizione alquanto ristretta, ottenendo l’effetto più o meno cosciente di avallare altre forme di “uccisione pietosa”, e alimentando la confusione terminologica e concettuale che circonda le questioni etiche di fine-vita.

L’Associazione Europea per le Cure Palliative (EAPC), ad esempio, ha emanato nel 2003 un documento con cui esprime ufficialmente la sua posizione sull’eutanasia, definita come “l’azione di uccidere intenzionalmente una persona, effettuata da un medico, per mezzo della somministrazione di farmaci, assecondando la richiesta volontaria e consapevole della persona stessa” (Materstved L.J. et al.,
Eutanasia and physician-assisted suicide: a view from an EAPC Ethics Task Force, “Palliative medicine”, 17, 2003, p. 97-101,; tr. it. su “Rivista Italiana di Cure Palliative”, 1/2004, p. 42-46).

Con questa definizione viene ammessa la fittizia differenza etica fra azione ed omissione, laddove dovrebbe apparire ovvio che si compie un atto analogo per natura ed intenzione quando si provoca la morte attraverso la somministrazione di un farmaco letale o attraverso la sospensione di (o l’astensione da) un trattamento dovuto. Lo afferma chiaramente il Santo Padre nel Discorso ai partecipanti al Congresso: “l’eventuale decisione di non intraprendere o di interrompere una terapia sarà ritenuta eticamente corretta quando questa risulti inefficace o chiaramente sproporzionata ai fini del sostegno alla vita o del recupero della salute” (Giovanni Paolo II, Evitare ogni forma di eutanasia, “Osservatore Romano”, 13 novembre 2004, p. 5).

In altri termini, l’unico tipo di astensione o sospensione terapeutica lecito è il rifiuto dell’accanimento terapeutico, cioè di trattamenti inutili, gravosi e onerosi per il paziente oramai giunto inesorabilmente al termine dell’esistenza. Infatti, “il rifiuto dell’accanimento terapeutico non è un rifiuto del paziente e della sua vita. […L]’oggetto della deliberazione sull’opportunità di iniziare o continuare una pratica terapeutica non è il valore della vita del paziente, ma il valore dell’intervento medico sul paziente” (ibid.).

Di contro, la restrizione dell’eutanasia a quella “attiva volontaria” renderebbe moralmente accettabile la mancata somministrazione di terapie necessarie alla vita – ad esempio l’insulina per un diabetico o la dialisi per una persona affetta da insufficienza renale – e perfino l’astensione da cure ordinarie che non rappresentano atti medici, come l’alimentazione e l’idratazione, anche artificiali.

È comprensibile a questo punto come la medesima duplicità di atteggiamento di ritrovi nella determinazione di quali siano concretamente le cure palliative inadeguate o sproporzionate: quelle che non corrispondono ai reali bisogni del paziente, o perché non si impegnano efficacemente a rendere sopportabili i disagi del malato (come il dolore fisico, l’ansia, la solitudine) o perché vanno “oltre” i bisogni della malattia, risolvendosi in un modo per anticipare volontariamente la morte dei pazienti.

Precisa infatti il Santo Padre: “mentre non si deve far mancare ai pazienti che ne hanno necessità il sollievo proveniente dagli analgesici, la loro somministrazione dovrà essere effettivamente proporzionata all’intensità e alla cura del dolore, evitando ogni forma di eutanasia quale si avrebbe somministrando ingenti dosi di analgesici con lo scopo di provocare la morte” (ibid. ).

Un atteggiamento veramente umano nei confronti dei morenti, e dunque delle cure palliative, deriva direttamente e necessariamente da una concezione equilibrata della sofferenza, in particolare dall’acquisizione della capacità di soffrire per primi. Chi non sa soffrire, infatti, non può amare. La fuga spasmodica da ogni forma di sofferenza, ovvero la ricerca parimenti spasmodica del piacere sono incompatibili con l’amore, che per definizione si esplica nel dono di sé e nella rinuncia a sé, cioè all’ego-ismo. A questo si riferisce l’Evangelium Vitae osservando che “[q]uando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile” (n. 64).

Nel Discorso citato, invece, il Papa chiarisce che “[d]i fatto esiste una relazione direttamente proporzionale tra la capacità di soffrire e la capacità di aiutare chi soffre. L’esperienza quotidiana insegna che le persone più sensibili al dolore altrui e più dedite a lenire i dolori degli altri sono anche più disposte ad accettare, con l’aiuto di Dio, le proprie sofferenze” (Giovanni Paolo II, Evitare …cit.).

Agenzia di notizie www.zenit.org – 21 novembre 2004