Capitalisti miliardari finanziano i movimenti “no global”

Chi c’è dietro i no global?
Dopo i violenti scontri di Genova nel luglio 2001 il Wall Street Journal fece un’indagine su questo movimento “spontaneo”. E scoprì: “Le proteste antiglobal sono diventate un affare da milioni di dollari

Chi sono i no global? A loro piace pensare di essere un movimento “spontaneo”: ragazzi un po’ maneschi ma preoccupati dell’ambiente, della Tav, contro il nucleare, che si mobilitano liberamente contro lo “sfruttamento”, “per il Terzo Mondo” e per la “pace”. Ma dopo i violenti scontri di Genova nel luglio 2001, nientemeno che il Wall Street Journal fece un’indagine su questo movimento “spontaneo”. E scoprì – parole sue – quanto segue: “Le proteste antiglobal sono diventate un affare da milioni di dollari”. Infatti quel movimento, che ha “filiali in tutto il mondo”, è una “vera e propria holding con tanto di capitale di rischio, management, campagne di marketing e direttori finanziari”. E riccamente finanziata da insospettabili capitalisti miliardari. A Genova, come si ricorderà, il movimento scatenato, che riuniva tremila sigle “antagoniste”, organizzazioni non-governative italiane ed estere, gruppi “cattolici” di suore e preti terzomondisti, si chiamava Genoa Social Forum. Perché questo nome? Spiegava il Wall Street Journal: perché il movimento genovese è una “controllata” di una holding che si chiama… …International Global Forum, con sede a San Francisco, Usa. E l’international Global Forum, a sua volta, è generosamente finanziato da una “Fondazione culturale” che si chiama Deep Ecology (Ecologia Profonda) ed ha una dotazione di 150 milioni di dollari. Mica poco: allora erano oltre 300 miliardi di vecchie lire.
Chi pagava quella montagna di denaro? Douglas Tompkins. È il miliardario che ha fondato la Esprit Clothing Co.: una specie di Benetton ma più grosso e globale, con negozi in tutte le capitali del mondo che vendono jeans e abiti giovanili sotto il marchio Esprit.
Le fondazioni culturali (dette anche “senza scopo di lucro”) sono un fenomeno enormemente influente in America, e uno strumento essenziale per difendere gli interessi dei miliardari. Quando un miliardario ha profitti eccessivi, basta che li doni a una fondazione culturale da lui creata, e può detrarre questa donazione dalla tasse. Per questo la famiglia Rockefeller (Exxon e Chase Bank) ha fondato la Rockefeller Foundation, gli industriali Ford la Ford Foundation, e così via: per lucrare sgravi fiscali, ed avere allo stesso tempo a disposizione un “centro di pensiero” (think-tank) che promuove le politiche desiderate dai grandi capitalisti. La Rockefeller Foundation, ad esempio, si batte per la riduzione delle nascite nel Terzo Mondo, ed ha mobilitato a questo scopo miliardi di dollari, privati e anche pubblici.
Poiché Douglas Tompkins è un ecologista fanatico, ha creato la sua Deep Ecology per promuovere l’ambientalismo più estremo. Essa “funziona come una finanziaria che fornisce i capitali iniziali per la creazione di gruppi anti-global in tutto il pianeta”. Fra l’altro, la fondazione di Tompkins sostiene Attac, una sorta di “holding di Ong” francese, teleguidata da Danielle Mitterrand, la vedova del presidente francese, e dalla sua rete radical chic, che in Francia chiamano “la gauche-caviar”, la sinistra al caviale.
Anche certi sindacati versano quattrini per le iniziative no global. Una federazione sindacale olandese, la Federatie Nederlandse Vkbeweging, ai tempi di Genova aveva creato un “fondo di solidarietà internazionale” per finanziare i gruppi di volontariato ed ecologisti scesi in piazza. È denaro pubblico: specie nel Nord Europa, i governi versano quattrini ai sindacati per creare “fondi di solidarietà” il cui scopo ufficiale è sostenere economicamente i lavoratori in sciopero; ma parecchi fondi di Svezia e Norvegia stanziati a questo scopo pagarono la manifestazione di Genova, i viaggi e i pernottamenti dei “volontari” no global.
Non basta. Fra gli animatori, finanziatori e promotori delle manifestazione “antagoniste”, si scopre un altro miliardario: Theodore Goldsmith, detto “Teddy”. È il fratello minore del defunto Sir James Goldsmith, cugino dei Rotschild: anglo-francese, speculatore in materie prime, era uno dei dodici uomini più ricchi del pianeta, e si atteggiava a “barone rosso”, filocomunista. Il fratello Teddy Goldsmith è stato sempre un ecologista estremo. Ha fondato “Ecoropa”, un club di ricchissimi signori che si battono per trasformare la politica agricola della Ue in una “agricoltura organica”. Ha fondato e paga The Ecologist, il periodico, anzi la Bibbia, degli ambientalisti fondamentalisti, quelli che venerano la Madre Terra come una divinità, la dea Gaia. Quando nel luglio 2001 a Genova scoppiavano gli “spontanei” scontri contro il governo Berlusconi, Teddy Goldsmith era in Italia, e seguiva gli eventi dalla sua sfarzosa villa presso Siena.
Il figlio di Teddy Goldsmith, Zac, dirige The Ecologist, ed è anche il leader del gruppo anarchico britannico-americano “Reclaim the Street” (Riprendiamoci la strada”), non privo di collegamenti con i gruppi più discutibili: dai Black Blok alle Farc (la formazione paramilitare comunista della Colombia, riciclatasi nel narcotraffico) e le Ezln, il cosiddetto “esercito” del sub-comandante Marcos, grande amico di Bertinotti.
Del resto, attorno alla rivista Ecologist dei signori Goldsmith è collegata una galassia di infinite associazioni “verdi”: dal Green Party (il partito verde britannico, che negli anni ’70 era rosso, e si chiamava People’s party), l’americana Ruckus Society di Berkeley, California, che allestisce “campi d’addestramento” per manifestazioni di piazza, dove s’impara ad affrontare la polizia con biglie d’acciaio, a difendersi dai lacrimogeni, a mandarsi Sms per coordinare le proteste di massa con l’appoggio di “ciclisti-ricognitori” (chi scrive li ha visti all’opera a Genova).
Affiliata alla rivista dei Goldsmith è un’altra pubblicazione che conduce direttamente al Black Blok: The Luddite Reader, che vuole riportare alla vita il movimento luddista, che spinse gli operai tessili, nella Londra del primo ’800, a distruggere i telai a vapore, nella convinzione che “rubassero il lavoro” agli uomini.
Non stupirà trovare in questa compagnia un altro celebre capitalista: George Soros. L’ebreo-americano nato in Ungheria che guadagnò centinaia di miliardi nella nota speculazione sulla lira (e che fu insignito da Prodi, suo grande amico, di laurea honoris causa a Bologna). Anche Soros ha le sue fondazioni culturali esentasse: una, Drug Policy Foundation (altresì detta “Lindesmith Center”) fa propaganda nel mondo, con ricchi mezzi, per la legalizzazione delle droghe. Un’ altra, Open Society, si dedica a diffondere il verbo liberista nell’Est europeo (è stata espulsa da molti Paesi dell’Est perché considerata la longa manus degli interessi americani). L’una e l’altra hanno rapporti cordiali col sub-comandante Marcos. Strani connubi fra anarchici terzomondisti e grandi signori: il Wwf, la più potente organizzazione ecologista del mondo, ha avuto come grandi protettori il principe Bernardo d’Olanda e ha tuttora il patronato del principe consorte britannico, Filippo di Edimburgo. L’ingenuo si può chiedere come mai tanti super-capitalisti dedichino tempo e denaro a mobilitare i no global nel mondo. Sarà il costoso hobby di persone che hanno già tutto nella vita, e giocano ai rivoluzionari? Casi del genere ne abbiamo visti anche in Italia, quando Giulia Maria Crespi, la padrona del Corriere della Sera, ospitava in villa Mario Capanna.
Ma poi si scopre che il movimento dei ragazzotti “antagonisti” ha in comune molti spunti ideologici con i grandi signori. Costoro sono fanatici della crescita zero demografica, promuovono la de-industrializzazione (a loro che importa delle industrie? Fanno i soldi con la pura finanza) e la denatalità. Il principe Filippo è noto per aver pronunciato la celebre frase: “Vorrei rinascere come virus letale, per ridurre il numero di esseri umani su questi pianeta”. I no global tipo Francesco Caruso, Luca Casarini e loro compagni dei centri sociali sono parimenti anti-industriali, anti-tecnologici; come Soros, vogliono il libero spinello: esponenti di una “sinistra” regressiva e oscurantista che ha riempito il vuoto lasciato dal marxismo-leninismo progressista e industrialista.
Non ci credete? Cercate e leggete un libretto che la casa editrice “alternativa” Nautilus di Torino ha pubblicato nel 2001. Titolo: “Futuro Primitivo”: L’autore John Zerzan – un americano dell’Oregon capo di uno dei più fanatici gruppi anarchici e anti-global (quelli che inneggiano ad Unabomber, il dinamitardo che, in odio alla tecnologia, inviava pacchi esplosivi a vari scienziati) – vi propone di far tornare l’umanità all’età della Pietra. Letteralmente e senza scherzi. L’umanità ha cominciato a dividersi in padroni e servi, i dirigenti e subordinati, sragiona Zerzan, dal tempo in cui l’uomo inventò l’agricoltura e l’allevamento: allora nacque la divisione del lavoro, nacquero i competenti che facevano lavorare gli ignoranti, e la gerarchia sociale. Se vogliamo tornare alla vera anarchia, dice il fanatico, dobbiamo tornare alle caverne: le tribù dei cacciatori-raccoglitori, quelle sì erano società anarchiche realizzate, libertarie, dove tutte le donne erano in comune, non c’era il diritto di proprietà e non si conosceva l’alienazione. La gente non lavorava, viveva di tempo libero e faceva sesso a tutto spiano. “Per un paio di milioni di anni questa è stata la nostra natura, prima di essere ridotti in schiavitù da preti, sovrani e capi: un lungo stato di grazia e di esistenza pacifica”. Allora torniamo indietro, regrediamo all’umanità di 400 mila anni fa. Quando, sia detto tra parentesi, l’economia cavernicola consentiva di campar a forse 20 milioni di abitanti su tutta la Terra. Oggi siamo sei miliardi, grazie alla tecnica e all’agricoltura sviluppata. Ma Zerzan è disposto a veder sparire quasi tutta l’umanità, per trovare l’anarchia felice. Il principe Filippo non la pensa diversamente.
Aveva ragione Oswald Spengler: “La sinistra fa sempre il gioco del grande capitale. A volte perfino senza saperlo”. A volte.


di Maurizio Blondet
La Padania [Data pubblicazione: 12/02/2006]