Boston: Crocefisso non gradito all’università gesuita

USA. Quando nemmeno una scuola di Gesuiti
può tenere i Crocefissi nelle aule

Al Boston College, uno dei fiori all’occhiello delle università dei Gesuiti negli Stati Uniti, sono tornati i Crocefissi sulle pareti delle aule. Questa notizia non dovrebbe destare nessuna ammirazione, trattandosi di una scuola cattolica; sta di fatto, però, che vari professori lo hanno sentito come un affronto. Tra questi Dwayne Eugène Carpenter, preside della facoltà di Lingue e Letteratura Romanze e condirettore del Programma di Studi Ebraici, ha affermato che si tratta, quantomeno, di un’idea non molto intelligente e che, addirittura, «appendere dei Crocefissi… può avere un effetto negativo sugli studenti».
Sebbene tutti sappiano che una scuola privata non è un’istituzione dello Stato, il forte atteggiamento del tipo “non è permessa alcuna religione”, che permea le scuole pubbliche e le università, sembra essere diventato una norma sociale generale…

 

Secondo un rapporto dell’Inside Higher Ed (n.d.r. un sito web specializzato sull’educazione), vi è un po’ di baruffa al Boston College, uno dei fiori all’occhiello delle università dei Gesuiti. Secondo il portavoce Jack Dunn, fin dal 2000 un comitato sta studiando come aumentare la presenza dell’arte cristiana nel college. Come parte del progetto, veniva chiesto agli studenti che si recavano in America Latina o in Europa di riportare crocefissi e altri oggetti di arte religiosa.
Al Boston College non in tutte le aule vi è un crocefisso, continua Dunn, «sapevano che un certo numero di aule non aveva alcuna presenza di arte religiosa e così hanno aspettato di avere un numero sufficiente di oggetti per coprire tutte le aule. Questa è la sola ragione per cui è stato fatto adesso». Qualcuno nell’università lo ha vissuto come uno “tsunami” di arte religiosa e lo ha anche sentito come un affronto.
«Un’aula è un luogo dove si suppone che io, come docente, insegni senza alcun pregiudizio, insegni la verità. Se si mette un’icona, un simbolo o una bandiera, si confondono le cose» ha detto Amir Hoveyda, il preside della facoltà di Chimica. «Per 18 anni ho insegnato in un’università dove mi era permesso di insegnare in un ambiente in cui mi trovavo a mio agio. Improvvisamente, e senza nessuna discussione, senza nessun avvertimento o dibattito, letteralmente nel mezzo della notte, durante un intervallo, sono apparse queste icone».
Per Dwayne Eugène Carpenter, preside della facoltà di Lingue e Letteratura Romanze e condirettore del Programma di Studi Ebraici, l’aver messo questi oggetti di arte religiosa è un fatto che divide. Questi simboli, ha detto, non sono neutri: «Penso che sia ingenuo credere che appendere dei crocefissi possa aumentare la devozione religiosa. Dall’altro lato, può avere un effetto negativo sugli studenti», che potrebbero considerarli un elemento di malessere.
Un commento di Carpenter va dritto al cuore della questione: «Credo che molti siano stati turbati, ma la mia sensazione è che la maggioranza si sia detta “questa è una scuola cattolica e fanno quello che ritengono di fare”. Lo direi pubblicamente: è vero. È un istituto gesuita e come tale ha tutto il diritto di mettere immagini dove vuole. Solo che non è una cosa molto intelligente».
A mio parere, la cosa più evidente in quanto dice Carpenter è la sensazione del distacco dai Gesuiti e dalla missione del college. Infatti, usa “loro” e parla di una “crisi di identità” da parte del Boston College. Sia lui che Hoveyda affermano di non ricordare che vi fosse alcun oggetto religioso quando hanno cominciato a insegnare. Dice Hoveyda: «Per quanto mi riguarda, posso solo dirvi che, se avessi visto gli stessi simboli durante il colloquio nel dicembre 1989, non avrei preso in considerazione questo posto. Ho avuto molte offerte da altre parti e se avessi saputo che sarebbero apparsi questi oggetti… molto probabilmente non avrei preso le decisioni che ho preso (cioè di restare)».
Questa storia è paradigmatica di ciò che succede in ogni istituto di istruzione superiore cattolico o cristiano: quando si tenta di riprendere o rafforzare la propria identità, ci si accorge di non aver più la piena proprietà dell’istituzione. Almeno chi lavora nell’istituto da molti anni pensa di poter esercitare un suo diritto di proprietà, forse non andandosene come avrebbe voluto fare Hoveyda, ma ignorando semplicemente tutte le iniziative e attività dirette a far apprendere e apprezzare l’eredità cattolica.
Si può anche capire il loro punto di vista. Per parecchi decenni, molte università cattoliche e cristiane, hanno cercato di essere accolte dall’opinione dominante minimizzando la loro identità religiosa. Magari hanno mantenuto la richiesta agli studenti di frequentare corsi di teologia o filosofia, spesso con l’opzione di “studi religiosi” che non chiedevano agli studenti di confrontarsi con questioni di fede. Durante questi anni hanno cercato, assunto e dato cattedre a studiosi di grosso calibro, ma assolutamente disinteressati agli aspetti religiosi e, addirittura, ad alcuni che considerano la religione un fatto del tutto irrazionale. Questi docenti hanno sviluppato programmi di ricerca, attirato laureati, costituito dipartimenti e, spesso, assunto gente che la pensava come loro. Sono così diventati stakeholder dell’istituzione.
La nozione di una corretta “separazione tra Chiesa e Stato” caratterizza il pensiero di molti di costoro. Sebbene sappiano che una scuola privata non è un’istituzione dello Stato, il forte atteggiamento del tipo “non è permessa alcuna religione”, che permea le scuole pubbliche e le università, sembra essere diventato una norma sociale generale. Così, come ha detto il Reverendo T. Frank Kennedy (presidente del comitato per l’arte cristiana del Boston College), gli sforzi «per cercare di proporre l’invito di Cristo a partecipare all’amore, un amore che è perfetto nel suo altruismo» vengono considerati indiscreti, coercitivi e non ben accetti.
Kennedy la pensa diversamente: «Un invito all’amore e un invito alla fede sono proprio questo, un invito. Non si è obbligati a rispondere, si può rifiutare, e si possono avere molte ragioni per declinare l’invito, ma sottintendere che un’università gesuita o cattolica non sia libera di fare questo invito è semplicemente improponibile».
«L’identità del Boston College come istituzione gesuita e cattolica, che siamo orgogliosi di avere ereditato e che siamo felici di trasmettere alle prossime generazioni di allievi, ci spinge, come già detto da Giovanni Paolo II, “a offrire di partecipare al profondo desiderio che abbiamo di riconoscerci nel Crocefisso e di vederlo, non come qualcosa che divide, ma come qualcosa che deve essere rispettato da tutti e che può unire”».
Il problema si presenterà sotto diverse forme man mano che i college cattolici e cristiani vorranno affermare la loro identità. Da un lato, alcuni dei docenti più laicizzati se ne andranno verso altre università. Altri, come Brad Gregory che ha lasciato una cattedra a Stanford per insegnare a Notre Dame, saranno invece attratti da un tipo di istituzione dove l’integrazione tra fede e ragione è accettata e prevista. Nel frattempo, molti college e università cristiane dovranno ospitare facoltà desiderose di accogliere la loro identità insieme ad altre che le sono del tutto allergiche.
L’iniziativa del Boston College di portare l’arte cristiana nel campus invita le persone a venire a conoscere e a comprendere le convinzioni e, sì, la fede dei Gesuiti, la cui casa accademica è nel campus. Nessuno è costretto a unirsi, ma così può sapere chi sono.
(Edith Bougue, Professore associato di sociologia)
Il Sussidiario giovedì 19 febbraio 2009