Attenzione alla Gran Bretagna, vero laboratorio della crisi

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FINANZA/ Dopo le banche ora è crisi per le assicurazioni

Desta sorpresa il silenzio dei media italiani su quanto sta accadendo in Gran Bretagna, vero laboratorio della crisi in atto. Mervyn King, governatore della Bank of England, ha infatti sparato due siluri senza precedenti contro il governo laburista e i mercati: il primo sarebbe stato complice delle banche e delle loro gestioni allegre, mentre il secondo deve prepararsi al peggio, visto che «è impossibile quantificare la mole di denaro che sarà necessaria per stabilizzare il comparto bancario». La crisi è solo all’inizio: per ogni focolaio che pare isolato, se ne scatena subito un altro. Endemico e più resistente…

 

Come anticipato, la crisi bancaria mondiale è ormai giunta al punto di non ritorno. Il problema del default sul debito di molti paesi dell’ex blocco sovietico è stato l’argomento principale dell’ultimo vertice dei ministri delle Finanze Ue a Berlino ma i 200 miliardi che dovrebbero giungere dal Fondo Monetario Internazione, come annunciato dal premier britannico Gordon Brown, non si sa come e quando arriveranno.
Resta irrisolto il nodo dell’Irlanda (70 miliardi di debito e 350 punti basi sui credit default swaps, praticamente un morto che cammina), il cui fallimento innescherebbe un effetto domino sugli altri paesi dell’area euro a forte indebitamento: Grecia, Italia, Gran Bretagna e Spagna.
Per Simon Johnson, ex capo economista del Fmi, o si interviene in fretta o sarà l’inizio della fine dell’eurozona. Da Bruxelles come da Francoforte non giungono segnali né risposte. Anche l’euforia per il rinnovamento incarnato da Barack Obama comincia a scemare vista la palese incapacità del nuovo segretario al Tesoro, Tim Geithner, nel gestire la questione degli asset tossici nei bilanci delle banche: l’idea di semi-nazionalizzare Citigroup e Bank of America è quantomeno campata in aria visto che un ingresso al 40% nel capitale di Citi non servirebbe a nulla se non a prolungarne l’agonia.
Tanto più che nessuno sa veramente quantificare la mole di asset tossici che il gigante del credito Usa ha nei bilanci: la via della ripresa non passa dallo Stato, il caso Aig sta lì a dimostrarlo. Nazionalizzata all’80% ad ottobre per evitarne il crollo, ora l’istituto è tornato a battere cassa nel quadro del Tarp voluto da Hank Paulson. Insomma, un fallimento. La facile demagogia della fine degli speculatori alla Gordon Gekko serve solo alle anime belle: senza gli speculatori che con le loro operazioni al ribasso hanno mostrato a tutti la nudità del Re, la bomba della finanza creativa sarebbe esplosa con un anno di ritardo e ci avrebbe travolti senza alcuna ipotesi di intervento. Ora siamo sul Titanic, senza short-sellers saremmo stati sull’Hindenburg.
I cosiddetti “Tremonti bond”, tanto per tornare a casa nostra, sono nulla più che un abile trucco del governo per mettere mani e uomini nella governance delle banche: un tasso annuale del 7,5% rappresenta da un lato la volontà di fare cassa punendo i banchieri cattivi (i quali, ovviamente, si rifaranno sui correntisti, come la bufala del tasso Euribor ha dimostrato: gli spread sui mutui indicizzati Ue viaggiano ormai al 2,5-3%) e dall’altro un ricatto in piena regola che infatti vede i principali istituti italiani restii nell’accedere a questo strumento (anche se ormai l’acqua sta superando la gola e saranno obbligati a tornare a Canossa).
Desta invece sorpresa il silenzio dei media italiani su quanto sta accadendo in Gran Bretagna, vero laboratorio della crisi in atto. Ieri Mervyn King, governatore della Bank of England, ha infatti sparato due siluri senza precedenti contro il governo laburista e i mercati: il primo sarebbe stato infatti complice delle banche e delle loro gestioni allegre, visto che non ha garantito il necessario supporto agli organismi di vigilanza come la Fsa, mentre il secondo deve prepararsi al peggio, visto che «è impossibile quantificare la mole di denaro che sarà necessaria per stabilizzare il comparto bancario».
Bingo. L’attacco non è giunto a caso visto che nella mattinata di ieri il governo è stato obbligato a rendere noto che dovrà iniettare altri 25 miliardi di sterline di denaro pubblico nelle casse di Royal Bank of Scotland, salendo al 95% del capitale: insomma, una banca di Stato che nei fatti è solo un pozzo di debiti e perdite e che è costata ai cittadini britannici già 45 miliardi di sterline. A questo, poi, va aggiunta l’ormai certa nazionalizzazione parziale anche di Lloyds Tsb, vittima del matrimonio incestuoso con l’iper-indebitata Hbos.
E per unire oltraggio ad oltraggio il governo sembra restio nell’intervenire per bloccare la pensione da 650mila sterline garantita all’ex presidente di Royal Bank of Scotland, Sir Fred Goodwin, artefice principale del disastro in atto. E sempre da Londra, dalla parti di Southwark, giunge la conferma che il sistema bancario è ormai al collasso totale e che la prossima bolla ad esplodere sarà quella delle assicurazioni.
I principali hedge fund operanti nella capitale britannica, infatti, si stanno concentrando con le scommesse al ribasso proprio sui titoli di questo comparto: a dare il via alle danze dello short-selling ci ha pensato Lansdowne Partner, il fondo speculativo che per primo cominciò a scommettere sul crollo di Northern Rock. Insomma, gente che sa il fatto suo quando si tratta di soldi.
Tutti i principali gruppi assicurativi del Regno Unito sono entrati nei portafogli di prestito titoli dei trader che sperano nel crollo del prezzo delle azioni per quando avranno concordato la chiusura della posizione: Prudential, Aviva (l’ex Norwich Union), Legal&General e Old Mutual. E tutti, ad eccezione di Prudential che sembra per ora tenere, stanno perdendo significativamente in Borsa.
Anche se queste posizioni di shorting sono limitate come imposto dalle nuove regole della Fsa, il regolatore del London Stock Exchange (Lansdowne Partner ha scommesso 10,5 milioni di sterline su Prudential e 26,2 milioni su Aviva in attesa di aprire contratti sugli altri operatori), ma lanciano un segnale allarmante rispetto a quella che sembra essere a tutti gli effetti la “next shoe to drop”.
Insomma, la crisi è solo all’inizio: per ogni focolaio che pare isolato, se ne scatena subito un altro. Endemico e più resistente.

di Mauro Bottarelli
ilSussidiario.net venerdì 27 febbraio 2009