Allarme a Milano: antitumorale usato come abortivo

Aborti al «Buzzi». Esposto in procura


È stato presentato dal direttore generale dell’ospedale: «Era un atto dovuto dopo quanto emerso dall’inchiesta interna»…


 

Un atto dovuto. Una conseguenza di quanto è emerso dall’inchiesta interna all’Ospedale. Spiega così il direttore generale del Buzzi, Francesco Beretta, l’esposto che ha presentato alla Procura di Milano e che potrebbe portare all’apertura di un fascicolo sull’uso nel suo ospedale compiuto dal primario di ostetricia e ginecologia Umberto Nicolini, del methotrexate, un chemioterapico, come abortivo. «Di fronte alla relazione interna che affrontava il tema della potenziale violazione della legge 194 – afferma – era obbligatorio il deposito in Procura». Se ci sarà un’inchiesta o tutto verrà archiviato sarà dunque il Palazzo di giustizia a deciderlo. E dalla Procura trapela solo un timido commento: «la faccenda è delicata, sul filo della legge». Già, la 194. Che all’articolo 8 prevede che «l’interruzione della gravidanza sia praticata da un medico in un ospedale». E all’articolo 19 recita che «chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni». Altro aspetto di possibile rilevanza penale è l’utilizzo di un medicinale per indicazioni non autorizzate in Italia e senza l’avvio di una sperimentazione. A questo proposito circa quindici giorni fa si era espresso il sottosegretario alla Salute Antonio Gaglione che, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare urgente formulata dal capogruppo Udc alla Camera Luca Volontè, aveva affermato che «l’impiego del methotrexate per l’interruzione volontaria di gravidanza e più in generale l’utilizzazione di un medicinale in commercio, ma impiegato in modo allargato per un’indicazione non autorizzata deve avvenire nell’ambito di una sperimentazione clinica, approvata dal comitato etico della struttura e autorizzata dalla direzione generale dell’Ospedale, sotto la diretta e completa responsabilità del medico ospedaliero curante e nel rispetto della legge 194». Ed il sottosegretario aveva lasciato sospesa la questione, tut ta da verificare, di far rientrare il farmaco nell’ambito della cosiddetta «legge Di Bella», che regola le sperimentazioni cliniche nel caso in cui non ci sia la possibilità di trattare il paziente con altri tipi di medicinali. La relazione del sottosegretario si basava su quanto concluso dagli ispettori dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco, che, agli albori della vicenda si erano recati al Buzzi per visionare la documentazione clinica del professor Nicolini. In ogni modo, fin dal nascere di tutta la controversa questione, in prima linea contro l’uso di questo farmaco senza i dovuti controlli si è schierata la Regione Lombardia e più volte in campo è sceso il governatore Roberto Formigoni, il quale ha voluto non solo esprimersi in difesa della vita nascente, ma anche della salute della donna. Al suo fianco c’è sempre stato anche l’assessore regionale alla Sanità Alessandro Cé. Dubbi, dunque, sono venuti da più parti nei confronti di questa tecnica farmacologica di interruzione della gravidanza, molto simile nel procedimento alla Ru486, e che è stata praticata con un farmaco che è regolarmente registrato, ma per altri utilizzi. Inoltre, uno dei nodi fondamentali su cui ruota tutta la vicenda è che la somministrazione di questo farmaco a 53 pazienti (e dell’altro medicinale che serve per espellere il feto, la prostaglandina) è avvenuto, secondo quanto ha affermato la direzione generale dell’Ospedale milanese, senza informare l’azienda e senza chiedere il parere del comitato etico.


di Francesca Lozito
Avvenire 7 agosto 2006