Africa, la fucina dei martiri di al Qaeda

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Franco Londei
Pagine di difesa
7 agosto 2005



Sono ormai molti mesi che i servizi segreti di tutto il mondo segnalano una crescente attività di al Qaeda nel Corno d’Africa. Si era già a conoscenza di importanti infiltrazioni in Somalia dove la situazione è sempre più precaria e dove i signori della guerra dettano le regole, ben finanziati e armati. L’Etiopia si trova ad affrontare il crescente diffondersi di ideologie estremiste riconducibili al network del terrore fondato da Osama bin Laden. In Eritrea vi sono alcune aree, come la zona del Gash Barka a nord di Cheren, completamente in mano a gruppi estremisti che vi hanno installato campi di addestramento per i combattenti del jihad, il tutto con il beneplacito del governo di Asmara che vieta a chiunque di inoltrarsi in quelle zone senza un apposito permesso.

Ma non è solo il Corno d’Africa a preoccupare. Oltre al Sudan, anche vaste aree dell’Uganda, del nord Congo, della Repubblica Centroafricana ma soprattutto del Sahel (la zona compresa tra gli stati di Mauritania, Niger, Burkina Faso, Senegal, Capo Verde, Guinea Bissau, Gambia, Ciad e Mali) risultano pesantemente infiltrate da adepti di al Qaeda, tanto da spingere gli Stati Uniti ad inviare una task force proprio nel Sahel per cercare di stanare i campi di addestramento dei combattenti islamici. Questa situazione, per certi versi nuova, ha un preciso perché, riconducibile alla strategia a lungo termine di al Queda.



Infatti, da sempre bin Laden e soci hanno costruito una sorta di retrovia lontana dai teatri di prima linea, dove poter indottrinare e addestrare i futuri martiri del jihad. Lo fecero in Afghanistan (supportati dai futuri nemici americani), in Iraq (quando il regime di Saddam chiudeva gli occhi sui campi in Kurdistan), lo fanno in Indonesia, in Iran, in Cecenia, in alcune aree della Siria e del nord Africa. Ora si spingono oltre, mirando dritti al grande bacino africano. E’ in Africa, infatti, che viene segnalato il maggior numero di conversioni all’Islam, dove convincere un affamato con un po’ di farina è facilissimo, dove costruire moschee e scuole coraniche è possibile più che in altre parti, dove il controllo del territorio è pressoché impossibile e comunque facilmente eludibile con pochi dollari.



E’ nel contesto africano che è più facile inculcare l’odio verso l’Occidente sfruttatore, fare il lavaggio del cervello ai giovani, tanto da spingerli al suicidio per la causa. E allora può capitare di trovarsi in una remota zona africana e sentirsi spiegare cosa viene insegnato ai giovani mussulmani, quali siano i precetti del califfo Osama Bin Laden. Il mondo è diviso in tre parti: “la casa della pace” (Dar al-Salam) dove vivono i mussulmani secondo la legge islamica e i popoli sottomessi; “la casa della tregua” (Dar al-Hudna) dove vivono i popoli non sottomessi con i quali è stata conclusa una tregua temporanea nell’attesa di riprendere le ostilità; “la casa della guerra” (Dar al-Harb) dove vivono tutti i popoli non sottomessi. Salta subito all’occhio come vengono definiti i popoli che non riconoscono l’islam come religione, cioè “non sottomessi”.



Poi ci sono le indicazioni più importanti, quelle cioè che riguardano il jihad anche se contrariamente a quanto comunemente creduto, la parola non significa guerra ma deriva dalla radice araba che significa “esercitare il massimo sforzo” e solo al limite “combattere”, ma la parola connota un ampio spettro di significati per cui è facilmente interpretabile. Secondo il califfo Osama ci sono due tipi di jihad: quello difensivo e quello offensivo. Per jihad difensivo si intende la lotta armata contro l’occupazione straniera o l’oppressione da parte di un governo succube dell’infedele. Per jihad offensivo si intende l’intraprendere guerra di aggressione e conquista contro non-musulmani al fine di sottomettere questi e i loro territori al dominio islamico. Lo jihad offensivo prevede l’attacco al nemico sul suo territorio.



La conseguenza più diretta di queste linee di pensiero è la percezione degli adepti di una forte giustificazione religiosa negli atti che in Occidente vengono chiamati “di terrorismo”. Nel loro caso vengono interpretati come risposta adeguata alla miscredenza e alla prepotenza degli infedeli, convinzione che porta molti di loro a vedere l’estremo sacrificio come una porta aperta per il paradiso islamico. Allora quelli che per gli occidentali sono considerati terroristi kamikaze, dai seguaci di al Qaeda sono definiti “shahid” cioè martiri, morti nel nome di Allah e quindi meritevoli di entrare in paradiso perché sono morti soffrendo nella ricerca di compiacere Allah, avanzando senza mai indietreggiare contro il nemico infedele e portando nelle sue fila morte e distruzione.



Anche la concezione di uccidere innocenti viene distorta dai predicatori di al Qaeda. In effetti il Corano vieta esplicitamente l’uccisione di donne e bambini (5:32) considerandoli come esseri innocenti. Ma nella dottrina promulgata dagli adepti di bin Laden ogni obiettivo è legittimo se può far danno e terrorizzare il nemico (kafir). Questa dottrina nel contesto africano trova facile presa per vari motivi ma soprattutto perché convince i giovani musulmani africani che loro, e prima ancora i loro genitori, sono stati sfruttati dagli occidentali miscredenti e che i missionari bianchi in effetti non fanno altro che mantenere le popolazioni africane nella miseria e nella arretratezza solo per poterle meglio controllare.



Si provi a immaginare ora l’impatto che tali insegnamenti possono avere su un bambino di cinque o sei anni il quale, crescendo in questa ideologia, una volta adulto avrà come unico scopo quello di diventare shahid e sarà quindi pronto ad affrontare il jihad. Saranno loro i kamikaze di terza generazione. Nel frattempo, dal Corno d’Africa partono ogni giorno decine di combattenti verso l’Iraq per combattere lo jihad difensivo e verso l’Europa per combattere lo jihad offensivo mentre nelle retrovie si preparano i combattenti di domani.



Sottovalutare l’Africa come bacino d’utenza per al Queda potrebbe essere un errore fatale nel contesto della lotta al terrorismo nel lungo periodo. Questo in quanto Osama bin Laden e soprattutto il suo fedele braccio destro e mente operativa, Ayman al Zawahiri, hanno dimostrato di programmare le strategie considerando un arco temporale di vari anni, muovendosi in anticipo sui vari teatri e riuscendo a infiltrarsi là dove non si pensava potessero farlo.



http://www.paginedidifesa.it/2005/londei_050807.html