Accanimento terapeutico? Occorre stabilirlo nel caso concreto.

Cara dottoressa, sono Marco, medico appena sfornato e, se Dio vuole, futuro palliativista. Studiando per un periodo negli Stati Uniti, ho acquisito dimestichezza con il criterio della futility, con cui mi pare si possano individuare meglio i casi di accanimento terapeutico e quindi evitarli o risolverli. Non le pare che nel dibattito italiano questo termine sia poco presente, e che forse debba essere suggerito al posto delle vecchie espressioni come “cure sproporzionate”, “mezzi straordinari” e simili? La ringrazio molto per la sua attenzione e per la risposta che vorrà darmi. Credo sia utile anche per molti altri che, per professione o per semplice riflessione, si trovano ad affrontare l’ambito della fine della vita.


Risponde Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Caro Marco, abbiamo trattato in questa rubrica numerose volte, e particolarmente nell’ultimo periodo, il tema dell’accanimento terapeutico. Per una trattazione generale dell’argomento, quale imprescindibile sfondo per comprendere ogni considerazione specifica sul punto, rinvio dunque agli interventi precedenti (cfr. C. Navarini L’abc dell’accanimento terapeutico, ZENIT, 8 ottobre 2006; C. Navarini, Eutanasia e morte: antropologie a confronto, ZENIT, 15 ottobre 2006, http://www.zenit.org/italian/visualizza.php?sid=9375; C. Navarini, L’inganno della “qualità della vita”: quando il “miglior interesse” del bambino disabile è toglierlo di mezzo, ZENIT, 27 agosto 2006).


Se a livello teorico e definitorio l’accanimento terapeutico può apparire facilmente distinguibile dalla terapia vera e propria, dall’abbandono terapeutico e dall’eutanasia, meno semplice risulta affrontare i casi concreti, anche per le pressioni sociali e culturali che influenzano l’operato del medico nei giudizi e quindi nel comportamento. E il linguaggio è uno strumento privilegiato per esercitare tali pressioni.


È interessante notare ad esempio come nella lingua inglese l’espressione “accanimento terapeutico” in quanto tale non esista. Ci sono tentativi di traduzione, di esportazione o di nuovo conio del termine italiano (o meglio neolatino), per cui si trova in letteratura un esiguo numero di contributi che parlano di therapeutic obstinacy, di over-treatment, di aggressive medical treatment, ma nella gran parte della letteratura troviamo, in riferimento ai casi di accanimento terapeutico, espressioni apparentemente più neutre come life-sustaining treatment (mezzi di sostegno vitale), life prolonging treatment (mezzi di prolungamento della vita), treatment refusal (rifiuto dei trattamenti), treatment withdrawal/witholding (sospensione/interruzione dei trattamenti), spesso utilizzati, tra l’altro, anche per indicare velatamente l’eutanasia.


Oppure, troviamo l’assai dibattuto termine futility. Futility è in effetti un termine che evoca, come in italiano accanimento terapeutico, connotazioni morali negative, e che è stato definito variamente. Secondo Jecker e Schneiderman sarebbero futili quei trattamenti in cui “la probabilità di portare beneficio al paziente è così labile da risultare irrealistica” oppure in cui “la qualità del beneficio ottenibile è talmente esigua da non rientrare nelle finalità curative della medicina” (Jecker N.S. e Schneiderman LJ, Judging medical futility: an ethical analysis of medical power and responsibility, Camb Q Healthc Ethics. 1995 Winter;4(1):23-35). Si tratta cioè di una definizione prettamente medica, che esprime un giudizio probabilistico altamente critico sui risultati terapeutici (o “curativi”) di un intervento medico.


Ancora più chiaramente, Edmund Pellegrino (President’s Council on Bioethics, www.bioethics.gov ) osserva che “futilità, in senso generale, indica semplicemente l’incapacità di raggiungere l’obiettivo desiderato. In senso clinico, significa che una l’evoluzione di una malattia o di un processo patologico si sono spinti al punto da rendere un determinato intervento medico vano, ovvero non più a servizio del bene del paziente”. E aggiunge: “si tratta di una considerazione empirica riguardante esito, benefici e costi di un intervento medico. In questo senso, esemplifica e specifica il principio di beneficialità in una determinata situazione clinica” (E. Pellegrino, Decisions at the end of life: the use and abuse of the concept of futility, in Pontificia Accademia Pro Vita, The Dignity of the Dying Person. Proceendings of fifth assembly of the pontifical academy for life (Vatican City, 24-27 Febraury, 1999), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, p. 225).


Ma se inizialmente il termine indicava unicamente una valutazione di tipo medico, con l’avvento dell’autonomia, e dunque della partecipazione del paziente alle decisioni cliniche, la futilità ha preso ad indicare anche “gli obiettivi, i valori e le convinzioni dei pazienti, cioè tutte quelle cose attraverso le quali si può stabilire se vale la pena di prendere una certa decisione dal punto di vista del paziente” (ibid., p. 226; corsivo mio).


Dunque, non più soltanto una valutazione medica oggettiva, ma una valutazione del medico su elementi non medici legati alla soggettività del paziente. Se un tale criterio può avere una sua legittimità in alcuni contesti – quando il paziente è capace di intendere e di volere, quando è adeguatamente informato sul suo stato e comprende correttamente l’informazione, quando è sufficientemente equilibrato e libero per individuare il suo maggior bene totale e integrale – , diventa ambiguo e pericoloso non appena una simile commistione di elementi oggettivi e soggettivi venga trasferita su un paziente incosciente.


Secondo Pellegrino il termine futilità potrebbe risultare efficace nel disambiguare le incertezze insite nella distinzione, tradizionalmente proposta dall’etica medica, fra mezzi ordinari e mezzi straordinari. Tale distinzione è divenuta inadeguata ai continui progressi della medicina, per i quali quel che può essere considerato straordinario in un certo momento o in un certo luogo, può divenire in seguito o altrove ordinario.


La nozione di futilità correttamente intesa (“not as a moral principle, but as a means for prudential clinical judgment”) potrebbe dunque consentire, secondo Pellegrino, di comprendere meglio gli aspetti concreti e particolari delle singole valutazioni di accanimento terapeutico, attraverso il bilanciamento di tre criteri in parte oggettivi in parte soggettivi: l’efficacia (effectiveness), i benefici (benefits), e i costi (burdens).


Per efficacia si intende la capacità di un intervento di modificare la storia naturale della malattia in senso positivo, e questa è una determinazione oggettiva che dipende dalla competenza e dall’esperienza del medico. I benefici si riferiscono a ciò che il paziente (o la persona che lo sostituisce) percepisce come buono o vantaggioso per lui, ed è una determinazione soggettiva non quantificabile. I costi sono gli oneri fisici, emotivi, economici o sociali che il trattamento impone e si misurano sia soggettivamente (è oneroso per me?) che oggettivamente (nella valutazione fattuale del medico).


Tuttavia, anche il concetto di futility si presta, come già visto, a svariate ambiguità. Una difficoltà riscontrata frequentemente nell’utilizzo di tale criterio è la connotazione economica: la futilità di un trattamento viene spesso decretata su basi puramente economico-utilitaristiche, trasformando la decisione di sospendere un trattamento in un freddo calcolo materiale dei costi e dei benefici, indipendentemente dalla preoccupazione per il bene della persona morente.


È facilmente intuibile che, in questa prospettiva, possano essere ritenuti futili i trattamenti applicati o applicabili a pazienti poveri (non produttivi o onerosi per la società), emarginati, anziani, incapaci, disabili o neonati, per non parlare dei feti. Insomma, alle categorie più deboli della società, che non sono in grado di far valere i propri diritti e magari non hanno chi possa rappresentarli secondo giustizia.


Dal punto di vista etico appare perciò preferibile attenersi al criterio della proporzionalità delle cure, con cui ci si riferisce ai problemi inerenti i limiti, gli obblighi e le modalità di uso dei mezzi terapeutici. Tale nozione non esclude la necessità di soppesare i costi e i benefici dei trattamenti, ma intende farlo nel rispetto del bene integrale della persona che soffre e che muore. Poiché il bene globale del singolo individuo in un dato momento supera il calcolo dei costi e dei benefici, non è possibile identificare per semplice deduzione le cure come “proporzionate” o “sproporzionate”.


Il bilanciamento costi-benefici costituisce infatti, per così dire, solo la dimensione oggettiva della valutazione di accanimento terapeutico. Tra i “costi”, si possono comprendere “le difficoltà di applicazione, i rischi per il paziente, le sofferenze fisiche o psichiche indotte o prolungate dall’intervento, le spese necessarie e il loro peso sui parenti e sulla società, l’investimento di posti, strumenti e attenzioni che potrebbero essere dispensati ad altre persone, magari con maggior beneficio, ecc.” (G. Miranda, The meaning of life and the acceptance of death, in Pontificia Academia Pro Vita, The Dignity … cit.). Nei “benefici” vanno considerati “la speranza di successo (anche con ricorso a studi statistici), il tempo di cui prevedibilmente si potrà prolungare la vita, la qualità di vita che si può ottenere o mantenere, i benefici che potrebbero ricevere altre persone, soprattutto i parenti, ecc.” (ibidem).


Soggettivamente, tuttavia, si può giungere a conclusioni differenti. Un certo paziente potrebbe volersi sottoporre ad un trattamento gravoso e rischioso nella speranza di vivere un poco di più per adempiere a qualche scopo particolare (vedere un parente lontano, riconciliarsi con qualcuno, fare testamento, ricevere i sacramenti, semplicemente aspettare ancora un po’). Non dobbiamo considerare queste motivazioni irrilevanti, anzi, la persona morente dovrebbe poter scegliere liberamente in questo senso. D’altra parte, un’altra persona potrebbe sentirsi pronta a morire, potrebbe voler concludere la sua breve esistenza a casa sua, con i suoi cari, rinunciando a trattamenti che in ospedale potrebbero garantire alcuni giorni di vita ancora, ma in un ambiente asettico e medicalizzato, impersonale e freddo.


Questa richiesta è legittima, dal momento che non significa “decidere il momento ed il modo della propria morte”, come vogliono le posizioni eutanasiche, ma aspettare la morte nelle condizioni ottimali per riceverla, avvalendosi in fase terminale solo delle cure normali, ed eventualmente delle cure palliative, che devono mirare all’aiuto a morire, nel senso di lenire le sofferenze fisiche e psichiche, e non nel senso di adempiere alle richieste di morte da parte dei pazienti (cfr. Y. S. Choi, J.A. Billings, Changing perspectives on palliative care, “Oncology”, 4/2002, pp. 515-522; Kralauer et al., Sedation for intractable di stress of a dying patient: acute palliative care and the principle of double effect, “Oncologist.”, 1/2002, pp. 53-62).


Sull’identificazione delle “cure normali” vi è una certa varietà di posizioni in letteratura: per lo più indicano le cure infermieristiche di base (igiene, alimentazione e idratazione, anche per via parenterale, eventuali terapie ordinarie come l’asportazione del muco bronchiale, la disinfezione delle ferite, l’assunzione di antipiretici, antinfiammatori o analgesici, ecc.), come pure interventi necessari e/o urgenti come trasfusioni di sangue, applicazione del defibrillatore elettrico, del respiratore, emodialisi, ecc. Alcuni autori, tuttavia, considerano pratiche come l’A/I (Alimentazione/Idratazione) artificiale dei trattamenti “non normali” da applicare solo in taluni casi.


Non si vede però come in via ordinaria l’A/I artificiale possa risultare troppo gravosa o inutile per il paziente. Al contrario, rappresenta un sostegno vitale positivo, un aiuto, un mezzo per impedire i gravi disagi della disidratazione e della totale mancanza di nutrizione. L’orientamento generale deve dunque essere quello di somministrare l’A/I come cure normali, riservando la decisione di una loro interruzione unicamente ai rarissimi casi in cui la procedura si dimostrasse inutile, oppure nociva, o ancora impossibile da attuare.


In ogni caso, occorre ribadire ancora una volta che il vero nodo del dibattito sulle fasi terminali della vita non è tanto sul piano medico-scientifico – che offre sempre meno appoggi ai sostenitori delle scorciatoie “laiche” alla morte – ma proprio su quello etico-antropologico. È la visione dell’uomo, della sua dignità e del significato della vita e della morte che determinano l’orientamento della cultura, dei legislatori e dei medici, ed è proprio questa visione a essere determinante nella capacità di esercitare un giudizio prudenziale eticamente fondato sulle difficili condizioni delle persone morenti. In altre parole, chi pensa che sopprimere una vita “indegna di essere vissuta” sia un approccio indegno dell’uomo e della civiltà ha molte meno probabilità di prendere la decisione sbagliata in merito al modo migliore di accompagnare una persona nei momenti della sua maggiore fragilità.


(C) Zenit.org – 23 ottobre 2006